31-0. È questo il punteggio finale della partita di qualificazione alla Coppa del Mondo del 2001 che ha reso la squadra di calcio delle Samoa Americane una leggenda nel mondo del calcio internazionale. Non in senso positivo, sia chiaro: sono stati loro a subire quell’epico risultato. Pensate a quanto dev’essere stato pesante vedere le vostre speranze di gloria sul campo e il vostro senso di orgoglio nazionale trasformarsi in una pubblica umiliazione. C’è però un lieto fine in questa storia: la Federazione calcistica ufficiale della piccola nazione assunse un ex giocatore diventato allenatore di nome Thomas Rongen per rimettere in sesto questo gruppo di straccioni. Aveva solo alcune settimane per trasformare una squadra soprannominata “la peggior squadra di calcio di sempre” in giocatori che potessero reggere il confronto con il vicino Paese di Tonga per il primo turno. Quello che seguì fu una vera e propria storia di sfortuna sportiva, il tipo di incredibile trionfo dello spirito umano che di solito accade solo nei film.
Se avete visto il documentario del 2014 Next Goal Wins, conoscete i dettagli. È impossibile non sentirsi sollevati dal modo in cui questa squadra ha superato un passato di sconfitte e dal modo in cui la sua nuova figura di riferimento ha trovato pace tra le sue fila dopo aver subìto un’enorme tragedia personale. Taika Waititi ricorda di aver visto il film all’epoca della sua uscita e di essersi sentito ispirato come tutti noi. Molto tempo prima di iniettare 10cc di goffaggine nel franchise più impegnativo della Marvel e di regalarci un Hitler strambo e amichevole, il regista neozelandese si era specializzato in modeste commedie indie ricche di sentimentalismo, umorismo fuori dagli schemi e stranezze assortite. Torna ora alle sue radici per raccontare la vittoria di questa comunità di isole del Pacifico in una versione più grande e più divertente. Ma quello che vuole fare è “un film di Taika Waititi”, inteso come il creativo di culto dal nome assurdo come quello di uno dei suoi personaggi. E qui sta il problema.
Waititi è la prima persona che si vede e si sente in Chi segna vince, la sua drammatizzazione – nelle sale italiane dall’11 gennaio – della lenta e instabile marcia della squadra di America Samoa per uscire dal perenne ultimo posto. O meglio, sono i suoi baffi che si vedono per primi: un gigantesco cespuglio argenteo che copre il labbro superiore e scende lungo il lato della bocca. Interpreta un predicatore che porta la buona parola agli abitanti dell’isola e che introduce gli spettatori a quella che lui definisce una storia “whoa“; cioè, dalle sue stesse parole, “Whoa, non posso credere che sia successo davvero!”. (Nessuno nasconde che ci si è presi una licenza poetica, nel ritratto di questo Rocky del calcio. Quando Waititi ha presentato il film al Toronto International Film Festival, ha detto di essere stato costretto a prendere questa storia vera “e a stravolgere la verità… altrimenti, basta guardare il documentario”. Mi sembra giusto.)
O almeno, questo è ciò che ci sembra di ricordare aver detto il suo narratore-santone. A dire il vero, era difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse quella crescita pilifera bestiale, che minacciava di divorare la metà inferiore del suo viso. È il tipo di gag visiva che strappa subito una risata facile a scapito di tutto il resto, dall’esposizione delle premesse del racconto alla creazione di un senso del luogo o del personaggio. Il fatto che questo primo cameo dello sceneggiatore-regista sia accompagnato dall’avvertimento di aspettarsi alcune libertà è di fatto meno rivelatore dell’idea che si sia presentato, di sua spontanea volontà, con l’aspetto di un cosplayer di American Chopper. Sembra già che stia cercando di mettere in scena il suo stesso film, anche se quei baffi lo stanno mettendo in ombra. E anche se non si ripresenta nei panni dell’uomo di chiesa fino a quando Chi segna vince non si prepara per il suo grande ultimo atto, la presenza dell’uomo dietro il sipario aleggia per tutto il tempo ed eclissa ogni altro aspetto di questo feelgood movie, in un modo che inizia a minare la narrazione vera e propria. Avrebbero dovuto essere chiari e chiamarlo Taika Lasso.
La figura reale, simile a un lazo, è Thomas Rongen, centrocampista di origine olandese che ha giocato in numerose squadre americane prima di diventare allenatore. In seguito è stato licenziato dalla sua posizione di responsabile della Nazionale maschile americana Under-20, ed è così che questo ex calciatore si è ritrovato su quella piccola isola con il compito di trasformare giocatori privi di formazione di base in atleti di livello professionale. Rongen è più vicino all’alter ego malvagio di Ted, Led Tasso: è burbero, irascibile, incline a urlare e a lanciare oggetti, e non potrebbe essere meno entusiasta di essere bloccato a eseguire esercitazioni di Soccer 101. Il carattere pittoresco del territorio americano – da non confondere con “la Nazione indipendente di Samoa”, dice Tavita (Oscar Kightley), capo della Federazione calcistica/proprietario di un ristorante locale/cineoperatore televisivo/guida turistica, “con la loro gente presuntuosa che si vanta sempre del suo McDonald’s aperto 24 ore su 24” – lo offende. I suoi demoni personali sono incalcolabili. Ed essendoci a interpretarlo Michael Fassbender, è come un bagliore umano a fuoco lento che di tanto in tanto si accende e altre volte sfuma nel risentimento: all’attore non viene chiesto di fare granché. Ci si chiede cosa lo abbia attratto in questo ruolo, se non la possibilità di lavorare con Waititi.
Rongen è anche estremamente transfobico nei confronti della migliore giocatrice della squadra, Jaiyah Saelua, interpretata dall’attrice transgender Kaimana; è diventata la prima calciatrice transgender a partecipare a una partita di qualificazione della Coppa. A Rongen viene detto che Jaiyah è fa’afafine, un terzo genere non solo accettato ma abbracciato dalla comunità, e che viene paragonata a un fiore. I due si scontrano, fino a quando riusciranno a capirsi. Il film tratta il personaggio con dignità, fino a quando, più o meno, non lo fa più: è una linea così sottile e facilmente confondibile quella che separa il mostrare qualcuno che viene ingiustamente discriminato per le sue differenze dal far ridere attraverso quelle stesse differenze, e il dare a quel personaggio un grosso peso narrativo riducendolo allo stesso tempo a una persona come tante che aiuta il protagonista a superare difetti e ostacoli. (Non sono mancate le polemiche per il modo in cui Chi segna vince affronta questa eroina della vita reale. Sebbene l’interpretazione di Kaimana sia senza dubbio uno dei punti di forza del film, si ha la sensazione che questo personaggio chiave finisca per diventare un danno collaterale nell’indecisione di toni e registri del film. Il modo in cui vengono trattati il tema, i pregiudizi e l’eventuale riconciliazione non è sufficiente a rendere giustizia a Jaiyah.)
Per quanto riguarda la gente del posto e il resto dei giocatori, sono tutti trattati come i residenti di un’isola del Pacifico equivalente a quei villaggi inglesi delle commedie di un tempo prodotte da Ealing: fondamentalmente gente bifolca, molto popolare e a volte sincera fino all’inverosimile. Alcuni sono passivi, come il predecessore di Rongen, Ace (David Fane), dalla voce morbida, o il portiere umiliato della squadra, Nicky Salapu (Uli Latukefu di Young Rock); altri sono aggressivi, come la moglie di Tavita, Ruth (la bravissima Rachel House), e Rambo (Semu Filipo), un poliziotto con un piede destro micidiale. Eppure sembrano parlare tutti con la stessa voce, il che inizialmente è dovuto al fatto che Waititi ha riservato a un certo tipo di cultura indigena un raro trattamento sotto i riflettori. Solo quando si inizia a notare che praticamente tutti i personaggi, indipendentemente dal loro background, parlano con una cadenza leggermente stravagante e in parte sarcastica, e ogni persona sembra a un passo da una battuta spiritosa e/o una battuta senza senso, si capisce a chi assomigliano tutti. Il che ci riporta all’uomo dietro il sipario.
Nei film precedenti di Waititi come Boy (2010) e Selvaggi in fuga (2016), un senso anarchico della vita ronzava appena sotto le trame dell’adolescenza e sdrammatizzava il pathos senza romperlo del tutto. Una volta passato a progetti più grandi come Thor: Ragnarok (2017) e Jojo Rabbit (2019), quel senso dell’umorismo così diretto si è espanso in modo esponenziale per farsi sentire al di sopra del frastuono dei film di supereroi o dell’incubo delle tragedie storiche. Quest’ultimo progetto riporta il campo d’azione al realismo, ma mantiene lo stesso livello di divertimento delle sue articolazioni del MCU e delle buddy comedy hitleriane. Il risultato, be’, diciamo che non fa un favore né alla favola dello sport né all’artista che la reinterpreta. Chi segna vince è uno di quei film che, pur avendo buone intenzioni, lascia in qualche modo l’amaro in bocca. Nessuno nega che il breve attimo di vittoria delle Samoa Americane – la squadra non è arrivata ai playoff di Coppa, ma non è neanche mai stata all’ultimo posto – sia un grande colpo. Perché allora questa sembra un’occasione persa per tutte le parti coinvolte?