Esiste qualcosa di più americano di Chris Pratt? Esiste una faccia, una fisicità, un background capace di urlare “Stati Uniti” più di quanto sia in grado di fare il ragazzone del Minnesota? Be’, non credo proprio. Chris Pratt incarna perfettamente il mito del Sogno Americano, presunte derive conservatrici e religiose incluse. Classe 1979, origini tedesche, papà minatore, nel 1997 si diploma alla Lake Stevens High School, dove si era trasferito con la famiglia poco dopo la nascita a Virginia, distinguendosi negli sport più tipicamente a stelle e strisce: la lotta libera e il football. Il college a quanto pare non fa per lui, e dopo un solo semestre si ritira per dedicarsi ad attività di certo meno appaganti: venditore porta a porta di coupon e spogliarellista part-time. In un’intervista a Ellen DeGeneres nel 2013 si autodefinirà «un Magic Mike a basso costo»: «Ho fatto un po’ di addii al nubilato, ma non ero per niente bravo. Con il mio budget manco potevo permettermi un costume da poliziotto decente».
L’adolescenza di Chris sembra segnata dall’indigenza, e le cose non vanno meglio col tempo: a diciannove anni è un teenager senza prospettiva alcuna e si trasferisce a Maui, nelle Hawaii, vivendo come un senzatetto e dormendo in un furgone e in una tenda sulla spiaggia. Una sfilza di inutili lavoretti (inclusa l’organizzazione missionaria cristiana Jews for Jesus, letteralmente «Ebrei per Gesù») finché un giorno, durante un turno come cameriere in un ristorante Bubba Gump Shrimp Company (Forrest, ci stai ascoltando?), viene notato dall’attrice e regista Rae Dawn Chong, che lo vuole nel suo debutto alla regia, il cortometraggio horror Cursed Part 3. Nel 2002 Pratt ottiene il ruolo di Bright Abbott nel teen drama Everwood, che interpreta fino al 2006; dopo la cancellazione della serie, partecipa alla quarta stagione di The O.C. Il 2009 è l’anno della svolta: prima con Bride Wars – La mia migliore nemica, chick flick diretto da Gary Winick, al fianco di Anne Hathaway e Kate Hudson; poi l’horror Jennifer’s Body di Karyn Kusama, insieme a Megan Fox; infine Parks and Recreation, la serie creata da Greg Daniels e Michael Schur andata in onda su NBC dal 2009 al 2015.
La parabola di Chris Pratt è decisamente ascendente: da homeless alle Hawaii («È un posto davvero fantastico per essere degli spiantati. Abbiamo solo bevuto, fumato erba e lavorato poche ore, quel tanto che basta per coprire gas, cibo e forniture per la pesca») a personaggio di una delle serie tv più importanti degli anni Dieci, che, oltre a essere valsa un Golden Globe nel 2014 come migliore attrice a Amy Poehler, ha contribuito a lanciare le carriere di Rashida Jones, Aziz Ansari, Aubrey Plaza e Adam Scott. Lo stesso anno sposa a Bali l’attrice Anna Faris: i due sembrano i perfetti America’s sweethearts, mettono al mondo un figlio e fine alla loro storia d’amore apparentemente tutta fiorellini e cuoricini nel 2017 – tenetelo a mente che poi ci ritorniamo.
Nel 2011 si sottopone a una dieta ferrea (trenta chili in meno, con buona pace di chi s’indigna per i sette di Kim Kardashian) per entrare nel cast di L’arte di vincere (Moneyball) di Bennett Miller, dove recita accanto a Brad Pitt, Jonah Hill, Philip Seymour Hoffman e Robin Wright; in seguito interpreta un Navy SEAL in Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow; e nel 2014 fa il suo ingresso nel magico regno MCU grazie alla parte di Peter Quill aka Star-Lord, protagonista del filone Guardiani della galassia. Da classico bisteccone del Midwest naturalmente chubby, per Chris un altro film diventa in automatico un’altra dieta: per i Marvel Studios perde ventisette chili, s’allena come un disperato e, dopo l’uscita del film, raccoglie i frutti del sacrificio classificandosi al secondo posto tra gli uomini più sexy nell’annuale lista della rivista People.
Oltre alla saga marveliana, nel 2015 è il turno di Jurassic World e ciò che ne consegue (leggi, i relativi sequel Jurassic World – Il regno distrutto, del 2018, e Jurassic World – Il dominio, del 2022), poi del western I magnifici 7 di Antoine Fuqua, remake del film omonimo del 1960, insieme a Denzel Washington e Ethan Hawke, e di Passengers con Jennifer Lawrence, pellicola di fantascienza diretta dal norvegese Morten Tyldum. Chris Pratt non è certo uno da cinema indipendente o d’essai, e con una indiscutibile onestà intellettuale si posiziona come volto da blockbuster, un mix rodato e ben dosato di azione, muscoli, battute e tenera goffaggine.
Nel 2017 Pratt e Faris si separano, lui riceve la sua stella sulla Hollywood Walk of Fame in concomitanza con l’uscita nelle sale cinematografiche di Guardiani della galassia Vol. 2 e dopo un anno ufficializza la relazione con Katherine Schwarzenegger, primogenita di Arnold e Maria Shriver. La coppia si sposa l’8 giugno 2019, dopo l’uscita di Avengers: Infinity War e di Avengers: Endgame, e vuoi per le posizioni del suocero, vuoi per l’influenza della mogliettina, vuoi per il giro di pastori frequentato, il pubblico prende a contestare le posizioni religiose e politiche di Chris. Aperta parentesi: Pratt e Schwarzenegger vengono presentati da Chad Veach, fondatore della Zoe Church, congregazione cristiana di Los Angeles molto legata alla Hillsong, altra popolare chiesa pentecostale frequentata da celeb come Justin Bieber, Selena Gomez e la tribù Kardashian/Jenner. Il problema non sussisterebbe, se non fosse che entrambe le congregazioni ritengono l’omosessualità e l’aborto dei peccati (visioni abbastanza connaturate nel cristianesimo in generale, ma comunque).
In breve: dopo un intervento di Chris Pratt al Late Show di Stephen Colbert, Elliot Page lo accusa di sostenere una chiesa anti-LGBTQ; Pratt difende la Zoe Church, ma di lì a poco si fa vedere in giro indossando una t-shirt raffigurante la bandiera americana e un serpente a sonagli con la scritta «Non calpestarmi». Il serpente in questione è il simbolo della Gadsden Flag, una delle prime bandiere degli Stati Uniti d’America simbolo dai tempi della Guerra d’Indipendenza di patriottismo e libertà, adottata negli anni dal partito di destra Tea Party nonché da alcuni gruppi suprematisti. Apriti cielo: il pubblico non gli perdona lo styling, né d’aver espresso visioni vicine alle politiche conservatrici, d’essere stato l’unico tra gli Avengers a non aver sottoscritto la campagna di raccolta fondi per Joe Biden, d’aver sconvenientemente ironizzato sulle elezioni, d’essersi sposato in seconde nozze una destrorsa. In suo aiuto devono accorrere i colleghi supereroi – Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Robert Downey Jr. – che invitano gli utenti di Twitter alla calma ed elargiscono suggerimenti preziosi: «Se avete voglia di dialogare con Chris, cancellate i vostri account social, sedetevi, fatevi un esame di coscienza sui vostri difetti e lavorateci su».
Pratt, con la sua faccia da eterno quarterback, le sue umili origini e la scalata al successo che fa tantissimo American Dream, non si scompone: è rimasto un ragazzone del Minnesota, credente e repubblicano, icona di quell’America che magari non ci fa proprio impazzire ma di cui non possiamo negare l’esistenza (e il fatto è che sì, anche lei ha bisogno di sex symbol). Fresco fresco di The Terminal List, serie action thriller di Amazon Prime Video diretta da Antoine Fuqua e tratta dall’omonimo romanzo di Jack Carr, uscita il 1° luglio, il nostro torna anche con Thor: Love and Thunder, diretto e co-scritto da Taika Waititi (dal 6 luglio nelle sale), dove è in compagnia di Chris Hemsworth, Christian Bale, Tessa Thompson, Russell Crowe e Natalie Portman. Ne ha fatta di strada, da quando si presentava come «un Magic Mike a basso costo»: la favola del bifolco che si trasforma in star del cinema senza perdere completamente l’attitudine bifolca, d’altronde, intenerisce e affascina chiunque, sarà per quell’aria da bisteccone, sarà per quelle spalle, sarà per quella faccia pulita da ragazzone cresciuto a latticini e proteine animali. Se l’aria del Minnesota ha mai fatto un miracolo, quel miracolo si chiama Chris Pratt.