Avanti un altro. Ma proprio tu, Alain! L’estate non risparmia nessuno, nemmeno gli dèi. Prima Gena, la più grande. Ora Alain, il più bello. Ma era bellissima anche lei, e grandissimo pure lui. È che erano il cinema, erano la magia, irripetibile.
Alain Delon è stato un grande divo del cinema. Alain Delon è stato un grande divo del cinema italiano. Ci è debitore, e noi siamo debitori a lui, per aver prestato la sua faccia d’angelo alle nostre storie. Per essere stato nobile e operaio, principe e ladro, gentiluomo e mascalzone, picchiatore e picchiato – dalla vita, mica solo da Renato Salvatori.
Il ragazzo del Sud che arriva a Milano – e lì s’infrange l’innocenza – di Rocco e i suoi fratelli è il cinema, è la magia. “Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c’è più posto per i santi come lui: la loro pietà provoca dei disastri”: qui dentro, probabilmente, c’è tutto quello che Visconti ha visto in lui. Poi Il gattopardo – ma devo ricordarlo davvero? – e anche lì, con Tancredi, un mondo nuovo che spazza via tutto. E poi L’eclisse, certo. E per finire, troppo sinteticamente, con l’Italia, il nostro regista forse più sottovalutato, fra i grandissimi: Valerio Zurlini. Che gli dà, dieci anni dopo Luchino, quand’è già più stropicciato, La prima notte di quiete, e un cappotto di cammello, e tanta malinconia.
Alain Delon è stato un grande divo del cinema. Alain Delon è stato un grande divo del cinema francese. Ovviamente. Il primo grande successo lo dico poi. È stato il divo degli albori del blockbuster popolare (Il Tulipano Nero) e dei tramonti intellettuali (Nouvelle Vague di Godard, non granché capito). Ma è stato il volto – e Delon è IL volto, sempre – della più bella stagione dei polar. Anche qui, li devo citare? Sì, dài, perché sono fra i film più belli di sempre, e magari ridirli serve a qualcosa. I più famosi: Frank Costello faccia d’angelo (cioè Le samouraï), Il clan dei siciliani, Borsalino, I senza nome (il mio preferito), il primo e l’ultimo sono di Jean-Pierre Melville, altro regista enorme, e quello che forse ha preso definitivamente la faccia d’angelo di Alain e l’ha esaltata, violata, celebrata, corrotta.
Alain Delon è stato un grande divo del cinema. Alain Delon è stato un grande divo del cinema-cinema. Che è una cosa che appartiene a pochissimi. Il cinema che si crea nel momento in cui un attore si mette in scena, e un regista è lì davanti, e il mondo cambia. Il primo grande successo, dicevo. Delitto in pieno sole di René Clément – che poi sarebbe Il talento di Mr. Ripley – è il primo film in cui si compie il miracolo. Il miracolo del corpo che diventa essenza, astrazione, appunto magia, ma restando così presente che lo puoi toccare. Il cinema è fatto di corpi, i teorici lo hanno ripetuto fino allo sfinimento, e Alain Delon è stato il corpo del cinema, l’oscuro oggetto del desiderio collettivo, donne, uomini, tutti ammaliati, sedotti, soggiogati.
L’altro film che indica Delon come vettore del puro cinema è La piscina di Jacques Deray, naturalmente. Lì in realtà è una gara di corpi che si smaterializzano per diventare (restare) oggetti del desiderio, il suo, quello di Romy Schneider, l’amatissima, e quello della giovane Jane Birkin che tutto scompiglia. La piscina ha ancora oggi molti detrattori fra i critici (mi dispiace per loro), ma La piscina è IL cinema.
Delon ha avuto, come tutti, un abbrivio di carriera americana, diciamo anglosassone. Il solito trampolino per la Grande Hollywood da cui tutti tentavano di saltare. È stato in un paio (vado a memoria) di Losey fra i meno celebrati, ma che ricordo con piacere. È stato diretto dai professionisti dell’epoca – Mark Robson, Ralph Nelson, Terence Young – ma quel trampolino non l’ha saltato mai, non ha mai incontrato i grandi che, come lui in Francia e in Italia, stavano inventando un nuovo cinema altrove, più lontano. Era già divo qui. Il divo.
Alain Delon è stato un grande divo del cinema. Alain Delon è stato un grande divo del cinema europeo. Era europeo nella natura profonda, anche un po’ provinciale in fondo, nelle sue esternazioni da strapaese, anche oggi dopo il MeToo e gli scossoni che la destra ha dato alla République. Lui ci sguazzava, per posa o forse perché lo credeva davvero. Si è lasciato corrompere del tutto, del resto quella faccia d’angelo era già stata scarabocchiata dal cinema, figuriamoci se non ne approfittava con la vita.
Ha subìto le solite tragedie, ha fatto e strafatto, ha detto sì a tutto: molti di noi early millennial (scusate) lo ricordano forse soprattutto come eterno presidente di Miss Italia, a giocare – inconsciamente o forse no – con quel babau del sex symbol che l’ha perseguitato a vita. E però è rimasto Alain Delon, il bellissimo, il grandissimo. Fino alla fine, fino all’ultimo polar. L’orso di peluche, da Simenon, ancora con Deray, ricordando i Melville di una volta, che detto così sembra però Melville quell’altro, il narratore di capitani che vanno a caccia di balene fino all’ultimo, preservando il loro mito per sempre.