È frutto di una tragicomica congiuntura spazio-temporale se proprio mentre infiamma il dibattito sul destino di JJ4, l’orsa responsabile dell’uccisione di un runner in Trentino lo scorso 5 aprile ora catturata e in attesa di giudizio, esce nelle sale italiane Cocainorso, film di genere che nei patri lidi statunitensi è già assurto allo status di culto assoluto, mettendo d’accordo critica e pubblico (al momento siamo a 85 milioni di dollari di incassi nel mondo). Ma se nella triste realtà ci si chiede se sia giusto abbattere l’animale in quanto effettivamente pericoloso o se non si tratti più di vendetta da parte della specie dominante, nella finzione il messaggio del film è chiaro: quando l’uomo interferisce nella natura le conseguenze non sono mai buone.
Cocaine Bear (così in originale) è diretto da Elizabeth Banks, già solida attrice in parecchie commedie scollacciate a base di humor flatulento dirette da Kevin Smith, Seth Rogen e simili, e si inserisce nel nutrito filone di figli illegittimi degli Uccelli di Hitchcock e Lo squalo di Spielberg. Quello dei beast movie è un genere formulaico che negli anni ’80 trova la propria età dell’oro con titoli come Rats – Notte di terrore, Piraña paura (insospettabile esordio registico di James Cameron) e ovviamente Alligator, pellicola di Lewis Teague per la quale Tarantino ha manifestato più volte il suo entusiasmo. Le situazioni e il sottotesto dei suddetti titoli sono sempre gli stessi: uno scellerato intervento umano produce una mutazione che rende la fauna autoctona ostile, aggressiva e desiderosa di vendicarsi. Alligator, per esempio, prende spunto da una nota leggenda metropolitana secondo la quale molti americani compravano ai figli dei baby coccodrilli come animali domestici, salvo poi buttarli nel cesso e tirare lo scarico quando i rettili cominciavano ad assumere dimensioni ragguardevoli. Aggiungiamoci una multinazionale farmaceutica senza scrupoli che smaltisce le scorie chimiche di un ormone della crescita nelle fogne di Los Angeles, et voilà: sotto i tombini di Downtown ci sono coccodrilli grandi come scuolabus che divorano qualunque cosa o persona abbia la malaugurata idea di finire lì sotto.
Cocainorso non si discosta molto da questo canovaccio, se non fosse che il materiale di partenza è un’incredibile storia vera: l’11 settembre del 1985 Andrew Thornton II, un poliziotto della narcotici convertitosi a spacciatore, gettò dal suo Cessna troppo carico per mantenere quota 40 pacchi di cocaina mentre sorvolava il Parco Nazionale di Chattanooga, nel Tennessee, salvo poi lanciarsi lui stesso col paracadute, che però, per via della karma police, non si aprì. Il cadavere di Thornton fu trovato da un 85enne di Knoxville il giorno successivo: indossava occhiali infrarossi militari, giubbotto antiproiettile, 35 chili di cocaina e (un particolare che mi ha sempre divertito) mocassini Gucci ai piedi. Tre mesi dopo il Georgia Bureau of Investigation rinvenne il cadavere di un orso bruno nel parco. L’autopsia rivelò che l’animale aveva trovato uno dei pacchi di coca dispersi nel parco e l’aveva mangiato (una colazione del valore di 55 milioni di dollari), con l’ovvia conseguenza di un’overdose. Siccome poi siamo negli Stati Uniti e lo show deve andare avanti, l’orso venne impagliato e ora fa bella mostra di sé al centro commerciale Kentucky for Kentucky Fun Mall a Lexington, dove i visitatori possono ammirare quello che fin da subito venne ribattezzato Pablo Escobear. Non è una storia bellissima?
Ma veniamo al film, che s’è fatta una certa. La pellicola di Elizabeth Banks si prende delle ovvie libertà narrative, e di fatto risponde alla domanda evocata prepotentemente dal titolo: che succede quando l’orso Yoghi pippa come Tony Montana nel finale di Scarface? Risposta ovvia: una carneficina. Ambientato nel 1985, Cocainorso sin dal prologo rende esplicito il tono allo spettatore: non siamo lontani dalle sopracitate commedie scoreggione a stelle e strisce di cui Banks è stata più volte interprete, addizionate però con esplosioni di violenza splatter sopra le righe (ma mai eccessivamente gratuita). Il fattore nostalgia viene evidenziato dal classico aggregato di stilemi anni ’80: zaini, bandane, jumpsuit rosa, walkman e soprattutto un’evocativa colonna sonora a base di tastieroni riverberati con qualche squarcio thriller orchestrale opera di Mark Mothersbaugh (cantante e leader dei leggendari Devo).
Come in un film di quegli anni, abbiamo la classica mamma single che si arrabatta tra lavoro in ospedale e famiglia (Keri Russell) e la di lei figlia moderatamente ribelle e sveglia Dee Dee (Brooklynn Prince) che, assieme al migliore amico Henry (Christian Convery), fa sega a scuola per andare a fare una scampagnata nella foresta; a completare l’intreccio c’è una ranger frustrata (Margo Martindale) e un inetto attivista ambientale (Jesse Tyler Ferguson) che cercano di mantenere l’ordine nel parco vessato da una gang di teppisti (Aaron Holliday, J.B. Moore, Leo Hanna), un navigato detective locale (Isiah Whitlock Jr.) sulle tracce della cocaina dispersa e ovviamente i tirapiedi (O’Shea Jackson Jr. e Alden Ehrenreich) del boss locale (Ray Liotta) incaricati di recuperare il prezioso carico. Le traiettorie di questa variopinta umanità si intrecciano tutte, sfortunatamente, con quella dell’orso bruno in rota da polvere bianca. Come sappiamo dopo anni di pellicole più o meno riuscite, sono poche le cose che destabilizzano l’essere umano più della natura che si manifesta in modo lontano dalla rassicurante prevedibilità che ci si aspetta da lei.
Tra arti che volano, sbudellamenti, nuvole di coca e alcune sequenze irresistibili (la più riuscita è senza dubbio l’inseguimento dell’orso ai danni dell’ambulanza di paramedici, da antologia), Cocainorso mantiene alto il ritmo e cattura senza cedimenti lo spettatore, uno spettatore ovviamente consapevole di non essere arrivato al cinema per guardare Quarto potere. Ma il divertissement di genere tradisce anche una certa spolverata morale ovvero la rivincita della natura ai danni di una società civile inetta, stupida, goffa e molto più violenta del plantigrado suo malgrado su di giri, che infatti da iniziale villain dichiarato viene messo in una luce più benevola mano a mano che la storia procede. Finché, quando scopriamo dell’esistenza dei suoi cuccioli (anche loro schiavi del vizio del genitore), siamo portati a tifare per lui. Le vere bestie siamo noi, che veniamo a rompere i coglioni all’orso a casa sua. E qui evoco nuovamente Alligator e la scena in cui il mostruoso rettile irrompe in un sontuoso matrimonio tra ricchi, guastando la festa e divorando diversi invitati: Tullio Kezich, in una recensione dell’epoca, non potè fare a meno di notare che è difficile non empatizzare con il coccodrillone, la cui furia fa a pezzi il finto ottimismo di facciata dell’edonismo reaganiano.
Ad alzare il livello di Cocainorso rispetto ai citati predecessori è senza dubbio il budget, non proprio da serie B (30 milioni di dollari), che consente ai maestri della Wētā FX di dare vita a un predatore apicale interamente digitale ma assolutamente convincente e un signor cast collaudato e in splendida forma, a partire dalla coppia O’Shea Jackson Jr./Alden Ehrenreich (quest’ultimo già sottovalutassimo interprete di Solo nei panni del contrabbandiere più famoso della galassia), passando per la caratterizzazione sopra le righe di Martindale (una sicurezza) fino all’immarcescibile magnetismo luciferino di Ray Liotta, qui alla sua ultima interpretazione (il film è dedicato alla sua memoria).