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Come faremmo a vivere senza i film di Powell e Pressburger?

Il documentario , appena arrivato su MUBI , sulla più strepitosa coppia che si sia mai seduta dietro la macchina da presa è una lezione by Martin Scorsese sulla passione (no: il feticismo) per il cinema. Che continua a salvarci la vita

Foto: MUBI

C’è quel favoloso reel di Francesca Scorsese, la donna che vorrei essere, di cui è protagonista come sempre suo padre, e i due girano per casa inquadrando posteroni di film italiani, vecchie cineprese, e a un certo punto una teca vuota: ci dovrebbero essere le scarpette rosse di Scarpette rosse, dice lui, ma sono in prestito per chissà quale mostra.

L’amore di Scorsese per Powell e Pressburger lo sapevamo, almeno io e quei pochi pazzi feticisti (perché le scarpette rosse non le ho io, mannaggia!) rimasti in circolazione. Sapevamo anche dell’amicizia vera tra Michael e Martin al di là dell’amore cinefilo, data anche dal fatto che il primo aveva sposato, a tarda età, Thelma Schoonmaker, quel genio che ha montato praticamente tutti i film del secondo.

Ma sono pazzi anche (soprattutto) i registi, questa è la tesi di Scorsese, che a P&P dedica Made in England, un bellissimo documentario, da lui prodotto e diretto da David Hinton, che dopo l’anteprima all’ultima Berlinale arriva adesso su MUBI. Si capisce che questa è la tesi quando parla di Peeping Tom, cioè L’occhio che uccide, capolavoro di Powell in solitaria contestatissimo all’uscita (1960) e poi abbracciato da una generazione di cinematografari – Scorsese, Coppola, De Palma – che compresero il sottotesto neanche così celato: la vera arma del serial killer protagonista è la macchina da presa, la follia che lo divora è la stessa che contagia chi di mestiere nella vita vuole fare film.

Senza i film di Powell e Pressburger non si potrebbe vivere, sapevamo anche questo, e Scorsese, in questa lunga lezione di cinema – un po’ il suo vecchio Il mio viaggio in Italia sugli autori nostri, un po’ Cinema Speculation di Tarantino per la passione appunto feticistica – lo ribadisce ancora una volta. Perché il loro è “pure cinema”, come dice lui, e perché “all art is one”, come dicevano loro. Tutte le arti – la letteratura, il teatro, la danza, la pittura – si condensano in una soltanto, che può sintetizzarle tutte, che è il cinema. No: è il cinema di Powell e Pressburger. 

P&P erano due intellettuali a loro insaputa, in realtà due ragazzacci – i due più grandi “registi sperimentali che lavoravano nel sistema” (grazie Martin per la definizione perfetta), ma anche “due dilettanti in un mondo di professionisti” – che si erano formati nelle industrie cinematografiche più fiorenti al tempo della guerra, l’Inghilterra il primo (Powell, condannato ma allergico alla propaganda bellica), e la Mitteleuropa l’altro (Pressburger, tra Berlino e Budapest a fabbricare i kolossal del tempo). Uno regista puro, l’altro scrittore autarchico che arrivava con i suoi appunti scritti su fogliettini striminziti che ribaltavano tutte le trame. E invece di dire: “Questo è un matto”, Powell pensò: “Questa è l’unica persona con cui potrò mai lavorare”.

La speculation di Scorsese diventa anche la nostra. In più di cent’anni di cinema che ci ha dato somme coppie di fratelli registi, è raro, forse impossibile, trovare una coppia che s’è messa insieme per amore, come loro stessi definiscono quei vent’anni gloriosi e tumultuosi di carriera. E infatti Made in England è, prima che un doc su alcuni dei più grandi capolavori del cinema di sempre – come faremmo a vivere senza Scarpette rosse, e Scala al paradiso, e Duello a Berlino, e Narciso nero, e I racconti di Hoffmann, e La volpe, eccetera – un film sull’amicizia, un’amicizia quasi cavalleresca, fino al duello finale che li separerà per sempre. Perché nel mondo di cartapesta di P&P non c’era spazio per la realtà, e invece poi c’è la vita vera, che guasta tutto.

Ci sono cose bellissime, oltre alle scene dei film sezionate da Scorsese, in queste due ore e un quarto di viaggio in Inghilterra: Powell che ringrazia per l’invenzione del colore davanti al palazzo del Technicolor a Los Angeles; David Niven che lascia sempre il set alle 17:50 in punto, qualunque cosa stia succedendo; Churchill che è un po’ il loro Andreotti, “magari anche un bravo politico, ma un pessimo critico cinematografico”; un colpo di rossetto per portare il sesso nel cinema, non serve altro; il VistaVision che era “l’IMAX dell’epoca”; Powell che scrive una lettera a Scorsese dopo aver visto Mean Streets, “bello, ma c’è troppo rosso” (detto dal regista di Scarpette rosse e dei primi piani infuocati di Narciso nero; ma è così che si diventa maestri, e amici: rimproverando gli allievi); Hollywood che piega qualunque genio alle sue regole, e infatti quel genio inevitabilmente farà flop, se vuole restare libero; e le calzette rosse di Powell nell’ultima inquadratura, quando spiega cosa vuol dire essere “made in England”, forse non capire niente e insieme capire tutto, soprattutto cos’è il cinema. (In mancanza delle scarpette, datemi almeno le calzette rosse, grazie.)

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