Il ritratto (cinico) di Enzo Ferrari
Dimenticate i sorrisi di Sergio Castellitto nella fiction Rai. L’Enzo Ferrari ritratto da Michael Mann (e interpretato da Adam Driver) in Ferrari, in concorso a Venezia 80 e poi nelle sale italiane dal 30 novembre, è un uomo che mostra tutta la sua freddezza e il suo cinismo: dallo sguardo lucido e insieme quasi disumano con cui guida, letteralmente, la sua azienda (il marchio prima di tutto: e non solo nelle fotografie) alla gestione della sua vita “bigama” portata avanti con grande nonchalance nella Modena perbene degli anni Cinquanta. Se nelle foto di scena Driver faceva un po’ l’effetto “Maurizio Gucci 2”, sullo schermo è invece un credibilissimo imprenditore emiliano a cui ribolle il sangue, ma che procede dritto per la sua strada. Anche a costo di travolgere tutto e tutti.
Il progetto di una vita
«Certo, puoi guidare una Ferrari: ma farci un film è un’altra cosa», ha detto Michael Mann a Venezia a proposito di quello che è a tutti gli effetti il progetto di una vita. Trent’anni per arrivare al risultato, che esce otto anni dopo l’ultimo film del regista, Blackhat con Chris Hemsworth, un flop di pubblico e critica. Sì, Ferrari è un film sulle auto da corsa italiane più famose del mondo (scusaci, Maserati: che è anche un po’ l’ironico sottotesto del film), ma è, come tutta la carriera di Mann ci ha insegnato, un film di uomini (e donne, cosa invece insolita nella filmografia dell’autore). E le loro emozioni sono il vero motore (pardon) del film.
All'opera
Le donne, dicevamo. Michael Mann non disdegna, per il suo film, la definizione di melodramma: «Direi che è proprio un melodramma come quelli dell’opera lirica», ha detto a Variety. E l’ossatura del racconto sta tutta nei personaggi femminili, di solito sempre un po’ in disparte nel cinema dell’autore di Manhunter, Heat e Collateral. Soprattutto quello di Laura Ferrari, cioè Penélope Cruz, «che si è connessa in profondità con il personaggio fin dal primo minuto», dice il regista. Cruz interpreta una mater dolorosa come molte della sua gallery di ruoli, ma con twist pieni di humour. Più debole il ritratto che dà Shailene Woodley di Lina Lardi, “l’altra donna” da cui Ferrari ebbe un figlio. E a proposito di lampi di humour, la madre italianissima (dunque contro la nuora) di Enzo, cui dà il volto la nostra abile caratterista Daniela Piperno, ruba sempre la scena.
Questione di cronometro
Abituati a biopic che raccontano sempre l’intera vita del personaggio in questione, il bello di Ferrari è che si concentra su un periodo brevissimo. Tre mesi appena, quelli dell’estate del 1957 in cui Enzo Ferrari si gioca tutto: la credibilità (e la forza economica) dell’azienda, a cui serve a tutti i costi la vittoria nella corsa delle Mille Miglia per imporsi definitivamente su scala globale; e i tumulti privati, con la moglie – nonché sua socia in affari – che lo mette alle strette facendo leva sul potere economico che lei continua ad avere. Il finale è un po’ tronco, ma forse va bene così: in fondo, questo era solo un flash nella “piccola” vita di un grande uomo, fino alla fine.
Emilia, o cara
Certo, questi film ambientati in Italia in cui i protagonisti parlano in inglese (Driver con poco accento nostrano, Cruz enfatizzandolo un po’ di più ma comunque senza i “russismi” di Lady Gaga in House of Gucci) ci fanno sempre un effetto un po’ straniante. Per non dire dei piloti di casa nostra interpretati da volti che c’entrano poco o niente (vedi il pur bravo Patrick Dempsey, alias Piero Taruffi). Soprattutto quando poi i camerieri dei bar, i meccanici, i giornalisti e tutte le varie figure sullo sfondo parlano in italianissimo. Ma se c’è una cosa che Mann becca alla grande, è lo sguardo sulla provincia emiliana, che pare rimasta immutata e immutabile in quasi settant’anni. Le riunioni di lavoro che si fanno in trattoria (rigorosamente con una bottiglia di lambrusco davanti), i panni sporchi che si lavano pubblicamente (all’opera, of course) e quel piccolo mondo omertoso ma in fondo bonario e accondiscendente in cui tutti sanno tutto, ma fanno finta di niente. Ci voleva un americano DOP per farci venire voglia di tornare a Modena? Pare proprio di sì.