Com’è che un musical teatrale, cantato dall’inizio alla fine, portato in scena a Broadway nel 2015, tratto dalla biografia storica di uno dei meno noti tra i padri fondatori statunitensi e interpretato da cantanti semisconosciuti, è diventato un fenomeno culturale globale, definito da molti come lo show più importante del nuovo millennio? Rubando le parole al musical in questione (e sono così tante, e precise, che non è difficile) si potrebbe rispondere «by working a lot harder, by being a lot smarter, by being a self starter»: il musical Hamilton e il suo protagonista Alexander Hamilton, infatti, si assomigliano molto.
Ha vinto 11 Tony (su un numero record di nomination, 16), il Grammy dedicato alle soundtrack di spettacoli teatrali, il Pulitzer per la drammaturgia. Prima che Broadway a New York e il West End a Londra chiudessero i battenti per coronavirus, le rappresentazioni vantavano sold out ininterrotti (e, soprattutto a Manhattan, il prezzo di un biglietto equivaleva a quello di uno o più organi interni), e lo stesso i tour. Ha generato un album di cover e remix, The Hamilton Mixtape, con partecipazioni straordinarie di artisti come Kelly Clarkson, Alicia Keys, John Legend, Chance the Rapper, The Roots, Busta Rhymes, Usher, Queen Latifah. È diventato un must delle messe in scena scolastiche americane e dei video amatoriali di appassionati di Broadway pubblicati su YouTube. Ancora, di tanto in tanto, il creatore Lin-Manuel Miranda diffonde un “Hamildrop”, una traccia aggiuntiva, un nuovo arrangiamento, una chicca extra, ce n’è perfino uno – di One Last Time – in cui a leggere il discorso d’addio di George Washington è Barack Obama. Recentemente c’è stato perfino il caso dell’ex consigliere di Trump John Bolton che ha rubato, per il suo memoir pieno di rivelazioni sul presidente, il titolo a una canzone di Hamilton, The Room Where It Happens. E l’annuncio che una versione filmata dello spettacolo, registrata nel 2016 e dunque con il cast originale (nel frattempo diventato celeberrimo), sarebbe stata distribuita il 3 luglio da Disney+, e con più di un anno d’anticipo rispetto ai precedenti piani di uscita in sala, ha mandato in visibilio fan di tutto il mondo.
La storia di Hamilton inizia, appropriatamente, alla Casa Bianca nel 2009. Lin-Manuel Miranda, un giovane compositore e cantante all’epoca appena ventinovenne, viene invitato dal neoeletto Barack Obama e dalla First Lady Michelle a una serata di “poesia, musica e spoken word”: dovrebbe esibirsi in un numero di In the Heights, il suo primo musical, già acclamato a Broadway (sta per arrivare la versione cinematografica, diretta da Jon M. Chu). Sceglie invece di proporre una prima bozza di un pezzo a cui sta lavorando, che dovrebbe far parte di un concept album hip hop su Alexander Hamilton, il primo segretario del tesoro degli Stati Uniti: «Un personaggio che, per quanto mi riguarda, incarna l’hip hop», dice, e tutti si sganasciano, perché sembra una battuta. «Ridete! Ma è vero: è nato squattrinato, orfano e illegittimo, nei Caraibi, è diventato il braccio destro di George Washington, è diventato segretario del tesoro, è stato coinvolto in faide praticamente con ogni altro padre fondatore, e tutto grazie alla forza delle sue parole».
Durante l’esibizione qualcuno ancora ridacchia, ma all’incredulità sarcastica si sostituisce, alla fine, una standing ovation. La storia di Alexander Hamilton è esattamente quella riassunta da Miranda: dopo un’infanzia in povertà, si stabilisce a New York, si unisce alla guerra d’indipendenza americana, guida l’assedio di Yorktown; a rivoluzione finita, aiuta Washington a coltivare i primi semi di democrazia, difende pubblicamente la neonata costituzione, mette in piedi il sistema economico nazionale, e nel frattempo si inimica ogni collega di governo, soprattutto Thomas Jefferson (ha anche lati oscuri, ma vi lasciamo alla visione per scoprirli). Come finisce? Malissimo: Hamilton muore a neanche 50 anni, in uno stupidissimo duello, ucciso dall’allora vicepresidente Aaron Burr (non è uno spoiler: a parte Wikipedia, lo dice lo stesso Burr nella canzone d’apertura del musical).
Nel modo in cui la racconta Miranda (e prima di lui lo storico Ron Chernow, alla cui biografia di Hamilton è ispirato lo show), quella di Alexander è un’archetipica storia di Sogno Americano – l’uomo che, dal nulla e grazie alla propria infaticabile intraprendenza, fa la differenza nella vita collettiva – e l’intuizione geniale sta nel saldarla alla Storia con la S maiuscola, della costruzione di quel medesimo sogno: uno Stato indipendente, non governato da caste nobiliari, ma da rappresentanti eletti dal popolo; uno Stato di migranti venuti a reclamare il proprio diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, come recita la dichiarazione d’indipendenza. È un musical patriottico, Hamilton, ed è anche da qui che deriva il suo grande successo: riesce a riappropriarsi del patriottismo, troppo a lungo “scippato” dall’estrema destra, e a rifondarlo su principi d’inclusione, di progresso, di uguaglianza, di solidarietà. Gli Stati Uniti, dice Hamilton, sono un casino, sì: sono un grande esperimento sociale, ancora irrisolto; ancora, e per sempre, in progress. Un esperimento precarissimo ma potenzialmente rivoluzionario, e a cui anche tu, spettatore seduto in platea, puoi contribuire: History has its eyes on you.
Ma il successo di Hamilton è anche, e soprattutto, nella sua musica e nel suo libretto. Hip hop e rap sono i generi principali (e trasformano perfettamente gli scontri politici in battaglie in rima), ma la colonna sonora è variegata, e in modo ricercato e significativo: l’inglesissimo re Giorgio III si esibisce su sonorità Brit pop (in uno dei pezzi più esilaranti, You’ll Be Back, in cui il controllo della Gran Bretagna sulle colonie è cantato come una romanticizzata relazione d’abuso); le tre sorelle Schuyler vengono introdotte con un’irresistibile pezzo r’n’b, come fossero le antesignane delle Destiny’s Child; la futura sposa di Alexander, Eliza, gli dedica un perfetto tormentone d’innamoramento pop, Helpless; più avanti, la trascinante Non Stop (il tipico pezzone collettivo su cui si chiude il primo atto, debitore come struttura di Sondheim e di Les Misérables) ha echi caraibici, per sottolineare l’origine di Hamilton; l’arrivo dalla Francia di Thomas Jefferson è accompagnato da un jazz sinuoso. E così via. Ma la raffinatezza delle composizioni va ancora più in profondità: a ogni personaggio corrisponde un tema, che ritorna, varia, s’intreccia agli altri, tracciando parallelismi perfino subliminali.
E così anche la drammaturgia è costruita su richiami e rimandi, rispecchiamenti e inversioni di senso: quello straziante tra l’educazione musicale del piccolo Philip e le dieci regole dei duelli, per esempio; il reiterarsi dell’impossibilità di essere felici e appagati di Alexander e Angelica, nel tema di Satisfied; o quello, più perfetto ed evidente di tutti, del parallelismo opposto tra Alexander Hamilton e Aaron Burr: amici-nemici per tutta la vita, sostanzialmente identici ma caratterialmente opposti, il primo ripete continuamente di non voler gettare via la sua occasione (My Shot), il secondo di voler aspettare il momento giusto (Wait for It), e la tragedia scatterà proprio nel momento in cui trasgrediranno alle loro stesse regole.
Così come il valore politico di Hamilton continua a ricevere nuova linfa e nuove interpretazioni (il messaggio pro-immigrazione suonava potentissimo subito dopo l’elezione di Trump; oggi il blindcasting che assegna i ruoli a interpreti di qualsiasi etnia riverbera nelle rivendicazioni di Black Lives Matter), anche dal punto di vista artistico e musicale ogni ri-ascolto regala la scoperta di qualcosa di inaspettato. La versione dello spettacolo che arriva su Disney+ è stata registrata durante diverse performance del 2016, alcune con il pubblico, altre senza, e con largo uso di dolly e steadicam, per provare a riprodurre l’esperienza coinvolgente del pubblico in sala. Non sarà – probabilmente – la stessa cosa che vederlo dal vivo, ma anche rendere accessibile a tutti (al prezzo, tutto sommato modico, dell’abbonamento mensile a Disney+) un prodotto intrinsecamente elitario come un musical di Broadway è un altro piccolo pezzetto di questa rivoluzione.