Rolling Stone Italia

Come la Disney ci ha fottuto il cervello

Nel 1923 iniziava la storia di un disegnatore di nome Walt e di Mickey, il suo topo coi guanti. A seguirli, intere generazioni stregate da 'Biancaneve' e 'Bambi', da 'Hercules' e 'Aladdin', dai ghiacci di 'Frozen' e dai cassetti di 'Encanto'. E i live action? La prova che quel castello lì ci ha resi troppo vulnerabili

Foto: Hou Yu/China News Service via Getty Images

Per questo confronto con la Disney è previsto che sia allestito uno spazio a là Marina Abramovič, solo che su quella sedia di legno messa di profilo non ci sta la suddetta artista e performer serba, ma un topo cartoon con grandi scarpe gialle, pantaloncini rossi e un bel paio di guanti bianchi: Topolino (o Mickey Mouse che dir si voglia).

Laggiù in fondo, proprio dove c’è quel grande muro grigio, Minnie monitora come sta andando la produzione di fiocchetti in Cambogia; Pluto, al solito, cova vendetta perché per mere questioni di pedigree il caro Pippo (grande assente: è in vacanza col figlio) è un cane-umano, mentre lui, be’, no; Paperino sputacchia qualche parola su Paperina, che ora si è decisa a chiamare una terapista (ché non si regge più, ’sta incomunicabilità di coppia); e Pietro-sigaro-in-bocca-Gambadilegno è l’immancabile quota cattivona che presenta ogni buona storia. Poi ci sono Zio Paperone, Clarabella e via dicendo, ma si perdono tra le persone che arrivano, e che sono loro: gli spettatori che fummo, siamo stati e siamo. Le generazioni che aspettano di sedersi sull’altra sedia messa lì di fronte al topastro, per guardarlo negli occhi e forse sorridergli; o forse dirgliene quattro. In ogni caso, per cercare di capire come sia stato possibile che da cent’anni a questa parte ci siamo trovati così stregati dall’incantesimo (qualcuno direbbe maleficio) Disney da essere diventati vulnerabili a ogni cosa si aggiri intorno a quel castello che conosciamo assai bene.

Perché è del tutto evidente che con la fondazione del suo impero, il 16 ottobre 1923, Mr. Walt Disney ha dato avvio a qualcosa che (oggi possiamo dirlo) nel bene e nel male ci ha fritto il cervello. Il tutto creando un mondo di fantasia dove i personaggi, le storie, le immancabili canzoni sono parti di sceneggiature scritte in modo tanto magistrale e (soprattutto) tanto in linea con i tempi da catturare il nostro cuore e tessere i nostri ricordi. Ma anche di fotterci al punto da farci passare per accettabili cose decisamente sconvenienti, e per inaccettabili cose del tutto irrilevanti.

La Platinum Collection per il centenario Disney. Foto: Disney

Così, all’inizio del secolo scorso, ci pareva delizioso che Biancaneve (1937) entrasse in una casa di uomini (sette, per l’esattezza) e si mettesse a rassettare tutto, finendo poi dolcemente addormentata tra quelle coperte sudicie. Romanticissimo che nella Bella addormentata nel bosco (1959) un tizio armato di pugnale (il Principe, capirai) spiasse una ragazza sola nel bosco, sbucando poi fuori per prenderle le mani e ballare con lei. Roba che, a seguire questi esempi oggi, probabilmente si rischierebbe di finire in caserma – o citate nel podcast di Stefano Nazzi.

Che dire poi dei traumi? Come Dumbo (1941), a cui rinchiudono la mamma; e Bambi (1942), a cui la mamma, invece, l’ammazzano. E mi sento di perorare la causa di questo boomer infuriato che, dopo aver condiviso il suo pensiero su Facebook, ora sta dicendo a Topolino che no: vendere quella volta ai bambini l’illusione che si possa vivere in casa con un centinaio di cani (La carica dei 101, 1961), o nella selvaggia giungla, per di più in mutande sulla pancia di un orso o tra le zampe di un’accudente pantera (Il libro della giungla, 1967), proprio no, non è stata una cosa carina per chi ha sempre amato circondarsi di animali. O desiderato sfanculare i genitori.

Ma, da millennial, non posso che accodarmi anche a chi ora stringe quei guanti bianchi e ringrazia: grazie, topastro, per tutte le canzoni. Perché è solo grazie ai musicisti della Disney se negli anni ’90 abbiamo provato la bellezza di sentire il mondo tutto per noi (Il mondo è mio, Aladdin, 1992), pur realizzando che nulla di ciò che ci circonda davvero ci appartiene (I colori del vento, Pocahontas, 1995). È per merito di una delle hit più belle della storia del cinema se abbiamo associato l’idea della continuità della vita a quella di una giostra che gira e non si ferma mai (Il cerchio della vita, Il re leone, 1994). E non c’è da stupirsi che il pop sia stato un genere così di successo in quegli anni: dalle casse dei nostri televisori uscivano a volume altissimo le voci delle muse di Hercules (1997) e la maestria di (proprio quel) Phil Collins per Tarzan (1999).

Uno dei momenti del concerto per il centenario Disney. Foto: Frank Embacher

Arrivano i dubbi: ma non è che stata proprio la musica, più di tutto, a portare i bambini, iper-galvanizzati dall’universo Disney degli anni ’90, a trasformarsi nei cosiddetti Disney adult di oggi? Ovvero quei millennial ancora iper-gasatissimi che tra proposte di matrimonio a Disneyland, tazze e borracce dei personaggi preferiti, cerchietti con le iconiche orecchie da topo (e chi più ne ha, più ne metta), ne hanno fatto uno stile di vita che in alcuni casi rasenta l’ossessione. Ma soprattutto: non è che siamo tutti, in fondo, un po’ così? (Spoiler: se ci siete rimasti male per la chiusura degli store in Italia, la risposta è una sola: sì.)

E poi: se negli anni ’90 non ci fosse stato il trend delle sopracciglia spinzettate all’inverosimile, quelle della Megara di Hercules sarebbero state disegnate in quel modo? Mistero. Certo è però che, soprattutto con l’arrivo degli anni 2000 e la sempre crescente pressione della nuova Generazione Z, la Disney ha cercato (e sta cercando) sempre più di mettere in comunicazione il proprio mondo immaginario con quello reale, sensibilizzando e sensibilizzandosi a un nuovo tipo di narrazione.

A partire dalle donne, che non si fanno più salvare dai principi ma combattono: la Mulan (1998) degli inizi; Vaiana (nella versione italiana di Oceania, 2016: perché Moana da noi faceva troppo osé) e Raya (Raya e l’ultimo drago, 2021) di oggi. Proseguendo con l’idea di famiglia, che è anche quella “piccola e disastrata, ma bella” (cit.) delle sorelle Lilo e Nali (Lilo & Stitch, 2002); o quella messa in crisi dalla pressione delle aspettative e dalla paura di deludere i propri cari (Encanto, 2021). Calcando poi la mano sull’inclusività, con l’apertura a personaggi omosessuali (Strange World – Un mondo misterioso, 2022) per trovare un rimedio ai malumori della comunità lgbtq+; fino alla rappresentazione delle minoranze etniche urbi et orbi, con la gelida e sperduta Arendelle (Frozen, 2013) che, da un film all’altro (Frozen II, 2019), vede la propria popolazione diventare decisamente più multietnica.

Un’immagine di ‘Encanto’. Foto: Disney

Chiusa la questione? No, caro Topolino. Qui c’è ancora da fare i conti con la massima espressione della nostra lobotomizzazione collettiva: l’inesauribile dibattito verso i più recenti live action. Ovvero: la prova che siamo ancora vulnerabili, anzi, vulnerabilissimi a ogni decisione di casting o sceneggiatura che riguardi i personaggi e le storie che ancora sentiamo, per così dire, intoccabili. Così, nella maggior parte dei casi, c’è chi ha promosso i live action che ricalcavano gli originali (Il libro della giungla, 2016; La bella e la bestia, 2017; Il re leone e Aladdin, 2019); e cassato quelli che cercavano di scostarsene, fosse anche solo per un po’ (Alice nel paese delle meraviglie, 2010; Maleficent, 2014; Dumbo, 2019).

Fino a quest’anno, quando la Trilli di Yara Shahidi (Peter Pan & Wendy) e la discussi(ssimi)ssima Sirenetta di Halle Bailey hanno aperto le porte dell’inferno disneyano, smascherando definitivamente una fandom più esaltata di quella di Bruce Springsteen. Perché alcuni di noi sarebbero capaci di passare sul corpo di chiunque, pur di ottenere un casting adeguato alle (proprie) aspettative. Certo è che con la conferma della presenza dei nani-non-nani (leggi: creature magiche parlanti) nel prossimo Biancaneve (2024), la Disney sembra dirci di far pace col nostro cervello, ché non ci deve più alcuna spiegazione. E tant’è.

Ma sai una cosa, topastro? Credo che il pesciolino Flanders qui tutto smunto nella boccia abbia ancora due parole da dirti…

Iscriviti