Se la trascinante melodia di un tema di Danny Elfman non l’avesse reso chiaro, se l’immagine frastagliata simile a un pipistrello nel cielo non avesse funzionato, la visione di Michael Keaton di nuovo in tutina nera dovrebbe farvelo capire: The Flash, l’extravaganza supereroistica a lungo rimandata e che ora è finalmente al cinema, nasce nell’ombra lunga di un predecessore iconico, uno dei primi grandi cinecomic, l’originale Batman di Tim Burton. Eppure nello stesso anno, il 1989, c’è stato un altro grande successo cinematografico uscito pochi mesi dopo quello di Burton e che risuona allo stesso modo in questo blockbuster contemporaneo. Visto che i richiami e le influenze dei viaggi nel tempo tornano periodicamente, The Flash deve parecchio a Ritorno al futuro – Parte II.
Non il primo Ritorno al futuro, intendiamoci. Il sequel: quel giro sulle montagne russe che saltava da un’era all’altra e che Robert Zemeckis girò quattro anni dopo, facendo seguire alla sua mitica pietra miliare Eighties un intrattenimento più febbrile e meno altisonante. The Flash fa riferimento diretto al franchise starring Michael J. Fox nei suoi dialoghi, usando persino una battuta brillantissima per far capire a Barry Allen (Ezra Miller) che ha seriamente incasinato la linea temporale: in questa nuova versione della realtà, Eric Stoltz ha mantenuto il ruolo di Marty McFly. La gag serve a comprendere quanto Barry giochi con il tempo – saltando ad anni diversi, trasformando il presente in una nuova sfumatura di oscurità distopica grazie ai suoi cambiamenti nel passato – e rispecchia il pasticcio che Marty ha fatto con la storia nella sua seconda disavventura temporale.
Per un secondo capitolo che è stato accolto aspramente come inferiore, un tentativo fallito di ricatturare la magia del suo predecessore, Ritorno al futuro – Parte II si è rivelato sorprendentemente influente su una nuova generazione di film. Due settimane prima di The Flash, il pubblico ha potuto coglierne accenni anche in Spider-Man: Across the Spider-Verse, che allo stesso modo insegue una storia di fantascienza più radicata con molti salti di realtà contorti, una cupa versione alternativa del suo status quo da eroe del liceo e un finale “to be continued…“.
E ne sono presenti tracce importanti anche in altri blockbuster. Quando Avengers: Endgame ha utilizzato il viaggio nel tempo per inserire gli eroi negli eventi dei primi Vendicatori, non ha preso spunto dalla Parte II, in cui Zemeckis ha notoriamente tagliato e inserito Fox dal girato inutilizzato del primo film? Allo stesso modo, il franchise di Terminator ha seguito un copione simile con Genisys, intersecando la trama di un altro originale Eighties. Anche la saga Auguri per la tua morte ha fatto una deviazione nelle revisioni della timeline dei McFly, sottolineando il tutto con una citazione diretta.
Parte del motivo per cui Ritorno al futuro – Parte II ha resistito ben oltre il suo successo commerciale iniziale e la delusione della critica è che si è rivelato insolitamente profetico. Molti dei progressi tecnologici immaginati per la sua rappresentazione del lontano futuro – il 2015 – si sono poi avverati. Le aziende stanno ancora inseguendo il sogno degli hoverboard, aka i volopattini, product placement immaginario che ha chiaramente avuto un profondo effetto sulla fantasia del consumatore. C’era quella faccenda dei Chicago Cubs, che hanno quasi realizzato il loro destino di vincere tutto il giorno esatto in cui Marty è arrivato nel futuro. E, naturalmente, c’è la sfortunata profezia di Biff Tannen, la cui ascesa al potere in un 1985 alternativo sarebbe arrivata a rispecchiare il pasticcio politico creato dal riccone ingordo sul quale i cineasti lo hanno modellato, Donald Trump.
Il sequel ha provocato scosse di assestamento inaspettate anche nell’industria cinematografica. È stato il primo caso in cui Hollywood ha girato grandi hit una dopo l’altra, con Zemeckis che ha iniziato la produzione della Parte III di Ritorno al futuro, molto meno influente, appena tre settimane dopo la fine delle riprese della II. Da allora le produzioni di diversi capitoli dei franchise sono diventate la norma; più installazioni delle saghe di Il Signore degli Anelli, Harry Potter, Matrix, Pirati dei Caraibi, Hunger Games, Avengers e, naturalmente, Avatar sarebbero state realizzate contemporaneamente. Zemeckis, sempre all’avanguardia nella tecnologia cinematografica, qui ha anticipato un futuro in cui gli studios avrebbero messo in fila i loro grandi piani con anni di anticipo.
Allo stesso modo, il secondo capitolo di Ritorno al futuro ha anche contribuito a rendere popolare la tendenza di dividere a metà le avventure sul grande schermo e chiudere la prima parte con un palese cliffhanger. George Lucas ci era arrivato per primo, naturalmente. Ma l’epilogo inconcludente e un po’ deprimente dell’Impero colpisce ancora è una sorta di finale, mette il punto a un episodio di una saga più ampia. Con Ritorno al futuro – Parte II, Hollywood ha detto che non serve affatto una conclusione: basta lasciare il pubblico appeso, costretto a comprare un biglietto qualche mese dopo per vedere come andrà a finire la storia. Ora viviamo in un presente in cui questa è una tattica spaventosamente comune: rimanete sintonizzati, nel corso del prossimo anno, per le entusiasmanti conclusioni di Dune e dello Spider-Verse.
Più in generale, Ritorno al futuro – Parte II ha dimostrato che non esisteva un successo hollywoodiano troppo modesto e di dimensioni umane da non poter essere ridotto a un luna-park. L’originale, incentrato su Marty che fa mettere i suoi genitori insieme per garantire la sua esistenza, rimane un geniale tocco di realismo magico: una commedia costruita sullo scenario ipotetico di incontrare i tuoi molto prima che diventassero mamma e papà. Il sequel non ha questo tipo di aspirazioni. È un meccanismo di trame scatenate, anche più di quella DeLorean truccata, progettata solo per lanciare Marty dal 1985 al 2015 fino al 1985 e di nuovo al 1955. Si muove così velocemente che hai appena il tempo di registrare che fondamentalmente è un po’ vuoto. E nella sua storia folle, puoi vedere un modello per ogni sequel di Hollywood che scambia il concetto di “più grande e più veloce” per migliore, che razionalizza i piaceri più semplici di un film popolare in pura spettacolarizzazione.
Il che non vuol dire che non ci sia da divertirsi con Ritorno al futuro – Parte II, almeno per chi apprezza con le sue convoluzioni tra i paradossi temporali e Steven Spielberg. L’atto finale, almeno, è un ingegnoso trucco magico che forse solo Zemeckis avrebbe potuto realizzare: inserendo un secondo Michael J. Fox in Ritorno al futuro, ha raddoppiato la posta in gioco sul non fare casini con il passato, creando una serie di scenografie che dipendevano, precariamente, dalla conservazione degli eventi di un film precedente. C’è una ragione per cui The Flash, Endgame e altri hanno seguito il suo esempio.
Ma forse anche quei dirottamenti nel tempo erano una visione profetica – e il segreto della capacità di resistenza di questo sequel divisivo. Nell’era dell’eredità dei “seguiti”, Hollywood ora tratta ogni successo iconico del passato, e forse soprattutto quelli degli anni Ottanta, come un oggetto sacro a cui fare riferimento e da rivisitare. I sequel sono diventati una forma a sé di viaggio nel tempo, capaci di riportare il pubblico all’inizio: guardi un film come Top Gun: Maverick per rivivere echi del passato, per crogiolarti nel bagliore della nostalgia. Ritorno al futuro – Parte II si è inserito presto in questo spirito, mostrando letteralmente al pubblico il girato di un film che già amava. Non c’è da stupirsi che questo titolo sopravviva nei decenni, perché aveva già previsto il futuro che Hollywood avrebbe celebrato nel suo tornare perennemente indietro.