Shane è il titolo originale del Cavaliere della valle solitaria (George Stevens, 1953), un western che viene considerato apicale del genere. Shane, interpretato da Alan Ladd, è l’eroe misterioso, che arriva nella valle dove i coloni che hanno formato una comunità sono minacciati dagli allevatori le cui mandrie distruggono i campi. Shane, accolto da una famiglia di coloni, diventa idolo del piccolo Joe e alla fine, in un epico duello alla pistola, fa giustizia. Prima di andarsene risalendo, di notte, la collina dalla quale era venuto. Mentre Joe, che vorrebbe che rimanesse, lo chiama sempre più da lontano. Gran finale di epica. Shane è dunque il manifesto dell’eroe purissimo che agisce spinto solo dalla sua passione interna, per giustizia e senza compensi. Proprio come i cavalieri medievali che cercavano il Sacro Graal (interpretazione della critica francese). James Dean, eroe della “gioventù bruciata” e di quella generazione, nella sua camera ha appeso un’immagine di Shane.
Il film è una costruzione di grande realismo – i contadini, i rumori di fondo, i lavori – con una regia che ha ispirato successivamente i western che hanno, per qualche tempo, ridato vita al genere. Nel 1953 fece parte del cartello che si giocò gli Oscar, vale la pena ricordarlo: Giulio Cesare (Mankiewicz dirige Shakespeare); La tunica (primo Cinemascope); Vacanze romane (Wyler si gioca Audrey Hepburn, premio Oscar); Da qui all’eternità, vincitore (di Zinnemann, con la più bella sequenza di erotismo senza hard: Burt Lancaster e Deborah Kerr sulla risacca). Non c’era mai stata e non ci sarebbe mai più stata una cinquina più prestigiosa di questa. Shane ottenne l’Oscar per la fotografia. La colonna sonora venne ignorata.
Eppure era una delle più belle e intense di quelle stagioni. L’aveva composta Victor Young (1900-1956), uno dei giganti di quella disciplina. Il film si apre con Shane che scende nella valle. Il tema già precorre quella che sarà la vicenda. La chiave evoca l’epica dei pionieri e Shane è il modello dell’americano che, ancora inconsapevole, darà un contributo a quella che diventerà una grande nazione. C’è una sequenza in cui Shane, insieme al contadino che lo ospita, abbatte un enorme ceppo. Young compose un’armonia, adattandola al ritmo dei colpi delle scuri, che richiama le sinfonie della grande musica tedesca. Clint Eastwood riprese l’episodio nel suo Cavaliere pallido. Il ceppo è sostituito da un grande masso sul quale si abbattono i colpi di mazza dei due amici. L’Academy Award si fece perdonare l’abbaglio di quell’anno, consegnando a Young l’Oscar per Il giro del mondo in 80 giorni, del 1956. E anche quello è un esercizio completo, perché il regista Michael Anderson, in pieno rispetto di Jules Verne, fa fare a Phileas Fogg e al suo assistente Passepartout l’intero giro del globo attraversando gran parte delle etnie e culture. E Young aderisce alla perfezione, interpretando le vocazioni musicali di Francia, Inghilterra, India e Giappone, fra le altre. Oscar più che legittimo.
La memoria del cinema rimanda anche una canzone, diventata un superclassico, Johnny Guitar, che Young compose insieme alla cantante Peggy Lee per il film diretto da Nicholas Ray con Joan Crawford e Sterling Hayden. Victor Young è stato nominato all’Oscar 18 volte. Alcuni dei titoli sono grandi classici, di generi diversi. Cecil B. DeMille lo chiamò per due colossal, Giubbe rosse (1940) con Gary Cooper e Sansone e Dalila (1951) con Hedy Lamarr e Victor Mature. Ultima citazione, decisamente preziosa, Per chi suona la campana. Fu lo stesso Gary Cooper, protagonista, a presentare Young a Hemingway, che ascoltò l’idea del musicista di dare alla colonna qualche leggero tocco di metafisica, che si conciliava con l’azione dell’idealista eroe Robert Jordan, che combatte in Spagna per la libertà universale. Lo scrittore approvò.