L’eroe e l’eroina in coppia – non solo Astaire-Rogers o Tracy-Hepburn, insomma: non solo Hollywood – li abbiamo avuti anche noi. Chi frequenta il cinema, di fronte a un quesito del genere “qual è la coppia regina del cinema italiano?”, probabilmente si rifarebbe a Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Hanno fatto molti film insieme, a partire proprio dai loro albori, gli anni Cinquanta, quando erano semplici figure di contorno, lui magari un tassista e lei un’impiegata che doveva tenere a bada il capo. Nei loro film, spesso diretti da De Sica, hanno portato appeal e qualità, propria e del film. Ma Sophia e Marcello, seppure leader, seppure magnifici, non sono il re e la regina.
La corona spetta ad altri due, della generazione precedente: Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Lui era il divo assoluto, accreditato da tanti generi e tanti ruoli: il militare, il pilota, l’amoroso, il nobile. Lei era una greca approdata a Cinecittà, costretta alla liturgica gavetta per diventare protagonista e predestinata in un film importante come Il delitto di Giovanni Episcopo, diretto da Lattuada e scritto nientemeno che da D’Annunzio. Yvonne era prosperosa e sensuale, occhi languidi, era nelle fantasie del popolo maschile del cinema. Totò diceva di lei “che bella donna, e quanta”, e la corteggiò a lungo, invano, sembra. L’incontro con Nazzari fece della coppia qualcosa di irresistibile, con la mano del regista Matarazzo, principe del mélo. Yvonne e Amedeo fecero film che sconvolgevano tutti, le donne soprattutto. Erano i primi anni Cinquanta.
Basterebbero i titoli, senza spiegazioni: Tormento, I figli di nessuno, Torna!, L’angelo bianco, Malinconico autunno. Gli intrecci sembravano versare lacrime dallo schermo. Lui e lei erano una coppia felice, ma dal passato tornava un fidanzato cattivo. Oppure lui la credeva infedele invece era fedele, sofferenza prima della catarsi. I due avevano un figlio, il destino crudele li separava, si ritrovavano al capezzale del bambino morente, lui disperato, lei suora. E così via. Gli italiani aspettavano i film della coppia come un premio, un nuovo amore o un’eredità. Le sale si riempivano, i fazzoletti si bagnavano. I fumetti e i fotoromanzi rilanciavano quei modelli e quelle storie. Marcello e Sophia erano grandi personaggi, ma Amedeo e Yvonne erano un investimento del cuore, come Nilla Pizzi, come Coppi e Bartali.
Cultura italiana, il dopoguerra, il nostro mélo, i nostri drammi in bianco e nero. Tutto questo ci stava allora. E il mélo era una cosa seria, dovunque. L’indicazione di Cinecittà si irradiava nel mondo, e poi ogni Paese coglieva lo spunto secondo cultura. Noi avevamo Nazzari-Sanson, Hollywood si inventò Rock Hudson-Doris Day. L’America era il Paese dei sogni realizzati, del benessere e del successo per tutti. I problemi, gli antagonismi, i drammi interni alla coppia erano difficoltà temporanee. Tutto sarebbe confluito nell’immancabile lieto fine. Rock e Doris erano sempre sorridenti, il motto di lei era “non dire mai che oggi è il giorno più bello della tua vita, domani può essere ancora migliore”. Rock era il seduttore irresistibile, ti guardava in tralice dal suo metro e 97 e tu, donna, gli cadevi ai piedi. Il fatto è che succedeva solo sul set, perché nella realtà, è notorio, le donne non gli interessavano. Baciava la partner e poi, di nascosto, si puliva la bocca. Ma con Doris trasmettevano un magnifico segnale di coppia, litigavi col tuo partner, ma poi Rock e Doris ti insegnavano come far pace senza scalfire l’orgoglio del maschio e della femmina. E poi ti divertivano davvero, a non è poco. Era quell’America, gli ultimi Cinquanta e i primi Sessanta. Ma lì, a incombere, c’era ormai il Vietnam. Gli Hudson-Day, felici e sorridenti, nella loro casa col giardino e la piscina economica, perdevano appeal. Ormai il pubblico era distratto da cose più serie.
Il meccanismo attivato da Astaire-Rogers, che si erano posti come deterrente ai drammatici anni della Depressione, negli anni Sessanta dunque non funzionava più. America diversa, meno ingenua e certo più preoccupata. Tuttavia, un paio di decenni prima, alla vigilia di un’altra guerra, la più tragica di tutte, il cinema americano era riuscito a portare un segnale di felicità non fittizia, perché non veniva trasmessa da adulti che dovevano comunque, in qualche modo mediare, apparteneva a due adolescenti straordinari e sinceri, Judy Garland e Mickey Rooney. La Metro, capace di cogliere il momento storico, di affrontarlo e contrastarlo se era il caso, inventò la serie di Andy Hardy. Protagonisti i due detti sopra. Erano modelli buoni, intelligenti e svegli. Il canovaccio era semplice ed efficace. Andy e la sua amica avevano un compito, molto spesso era una piccola orchestra e uno spettacolo da organizzare. Ma il percorso era arduo. C’erano i soldi da trovare, distribuire i ruoli, c’erano i meriti e le gelosie, l’impegno da profondere, i genitori da convincere, e i primi amori da gestire. Venivano messi in campo energie, intelligenza, valori. E alla fine impegno e sacrifici venivano premiati.
Una bella scuola di vita, e una strepitosa rassegna di talenti. Judy veniva dal mitologico ruolo di Dorothy nel Mago di Oz, cantava le canzoni di George Gershwin e Cole Porter, Mickey ballava il tip-tap con le orchestre di Glenn Miller e Tommy Dorsey. E i segnali arrivavano. Quando nel ’40 Londra era sotto i bombardamenti nazisti, molte famiglie inglesi spedirono i loro bambini in America, presso amici e parenti. La Metro produsse un Andy Hardy, Babes in Arms, dove i soliti adolescenti della serie organizzavano uno spettacolo per accogliere i loro piccoli amici inglesi in esilio. La colonna era composta da musiche a canzoni della tradizione americana e inglese adattate. Il regista era il geniale Busby Berkeley. Alcuni dei piccoli ospiti recitarono in brevi parti, molti fecero parte della grande platea che applaudiva lo show. Alla fine Judy Garland, davvero col cuore in gola, diceva “piccoli amici della nostra terra madre, state certi, verrà il momento che tornerete a casa e chi ha causato tutto questo sarà sconfitto e punito.” Allora il cinema era anche questo.