C’è molto di buono da dire su Air – La storia del grande salto, il nuovo film di Ben Affleck su come la Nike è riuscita a ingaggiare Michael Jordan come testimonial. La recitazione di tutti è ai massimi livelli. Viola Davis, una delle attrici più brave d’America, centra un’altra performance indimenticabile nei panni della scaltra e risoluta madre di Jordan, Deloris. Lo stesso Affleck, che finalmente ha accettato il fatto di trasformarsi sullo schermo in uomini poco affascinanti se non proprio ridicoli, è perfetto nel ruolo del fondatore e CEO della Nike, Phil Knight. La regia fa un ottimo lavoro nel descrivere Portland e la sua umanità prima che diventasse la Portlandia (titolo di una popolare serie tv USA, ndt) degli anni a venire: grigia, piena di alberi, villini in stile ranch e sentieri da jogging.
La sceneggiatura, da anni nella blacklist dei copioni “maledetti” di Hollywood, è brillante, trascinante, qua e là commovente, insomma il tipo di registro usato nei “film per adulti” ora appannaggio della Prestige Tv, visto che nelle sale sembra esserci spazio solo per i blockbuster. Ma per uno come me che va al cinema dopo aver scritto di tutto il processo che ha portato Michael Jordan a diventare il volto simbolo di Nike – nonché di tutte le operazioni all’interno del mondo del basket che hanno preceduto la firma del contratto – è difficile vederla solo come la storia dell’ennesimo Sogno Americano realizzato. Perché il film lascia un sacco di cose non dette, se non raccontate proprio in modo sbagliato, tanto da risultare un po’ irritante.
Prima fra tutte: la versione che il film dà di Sonny Vaccaro è davvero sciocca. Matt Damon, che ha anche prodotto il film con Affleck attraverso la loro nuova società Artists Equity, è un buon attore capace di portare il suo talento in tanti bellissimi film; ma è totalmente sbagliato nella parte di Sonny, che è stato la figura in assoluto più importante nella storia del marketing sportivo.
Vaccaro era il figlio di un minatore della Pennsylvania che, nel tempo libero, allenava una squadra di basket locale. Negli anni ’70, fondò il Dapper Dan Roundball Classic, la prima competizione nazionale dedicata ai migliori giocatori delle squadre di basketball nei licei americani. Attraverso questo concorso, Vaccaro, che era insieme un seduttore e un truffatore, conobbe tantissimi allenatori in tutto il Paese; allenatori che partecipavano al Dapper Dan per scovare e ingaggiare i nuovi talenti del basket.
Sfortunatamente per Sonny, non si potevano fare così tanti soldi con questo campionato scolastico. Perciò ideò il prototipo di un sandalo da basket da proporre a varie aziende, Nike compresa. All’epoca, la Nike era un brand di discreto successo specializzato in scarpe da corsa. Phil Knight, un contabile con la sete di successo, era stato un runner ai tempi dell’università; e Bill Bowerman, l’altro fondatore della società (e colui che aveva di fatto disegnato le scarpe), era il suo allenatore in Oregon. Knight iniziò con l’importare sneakers da corsa dal Giappone, ma con l’aiuto di Steve Prefontaine, il primo atleta messo sotto contratto da Nike, e l’esplosione della cultura del fitness negli Stati Uniti, finirono col prendere sempre più piede (pardon) nel mondo del running americano.
Ma, come forse potrete immaginare, il capitale è qualcosa che continua ad alimentare sé stesso. Il basket, il mercato sempre più grande, lo spazio per una crescita ancora maggiore. A quel punto Rob Strasser, che all’epoca era il direttore del marketing di Nike, guardò quel sandalo e disse: assolutamente no. Ma, al contempo, osservò Vaccaro e ne restò affascinato. Chi era quel tipo che sembrava conoscere tutti gli allenatori universitari del Paese? Avrebbe potuto essere una figura interessante per il mercato? Perciò si fidò di Sonny, e Sonny finì per avere un’idea che avrebbe cambiato l’industria per sempre.
I giocatori professionisti, disse, erano inaccessibili, considerati il portafoglio relativamente ridotto che Nike poteva permettersi. Ma le università – e i coach universitari – erano molto facili da coinvolgere. Prima di quel momento, le aziende di scarpe vedevano i college come meri clienti, non come partner commerciali: facevano soldi con la semplice vendita di sneakers per i programmi scolastici relativi al basket. Vaccaro consigliò di non limitarsi a quei profitti, ma mettere i giocatori dei college sui manifesti. Era contro le regole della NCAA pagare gli studenti per indossare le proprie scarpe, ma nulla vietava di pagare gli allenatori, offrendo loro diverse paia di scarpe gratis, e far sì che fossero loro a incoraggiare i giocatori a indossare quelle scarpe sulla tv nazionale, davanti agli occhi di milioni di spettatori.
Air racconta tutto questo in modo molto veloce, quando Knight rimprovera Vaccaro di fare troppi regali ai coach e lui gli risponde frettolosamente: “È un’ottima idea!”. Questa strategia, nella realtà, avrebbe cambiato tutto: il business delle scarpe sportive, gli ingaggi nelle squadre universitarie, le composizioni di squadre amatoriali e non. Con la trovata di Sonny, questo sport fatto solo di grandi star divenne un campo a cui anche la Nike poté accedere. All’improvviso, ogni ateneo aveva un partner commerciale, ogni allenatore guadagnava dagli accordi con i brand di calzature sportive e ogni giocatore professionista sapeva che avrebbe dovuto avere il suo marchio di riferimento. Il modello di scarpe che “nasceva” sui campi universitari poteva esplodere ovunque. Da quel momento, nel basket non accadde più nulla che non fosse in qualche modo condizionato da un brand di sneakers, e Vaccaro è l’unico vero responsabile di questa enorme trasformazione. Ancora prima che Vaccaro conoscesse Michael Jordan, era già l’Oppenheimer dell’industria delle calzature sportive, colui che aveva liberato il genio che avrebbe sconquassato tutto per sempre.
Dovete pensare che, dai primi anni, Robert Lipsyte scriveva di Sonny sul Times come se fosse una specie di demone. In tutto ciò che si può leggere o vedere su Sonny, la gente dice che quando lo hanno incontrato per la prima volta hanno ipotizzato che fosse un mafioso. Prima di assumerlo, alcuni dirigenti della Nike hanno cercato di convincere Strasser a fare un controllo sui suoi precedenti, per assicurarsi di non essere legati a una pessima persona. (Ma Strasser non lo volle fare.) Era un ometto italoamericano chiacchierone con un po’ di pancetta ma con un certo fascino, pieno di anelli e con una zazzera ribelle di capelli crespi. Viveva dentro la sua organizzatissima routine, 24 ore su 24, 7 giorni su 7; era amico degli allenatori, mediatore di informazioni, pettegolo e una grande mente del basket. Air sceglie di parlare di quest’ultimo aspetto, mettendo da parte tutto il resto.
Nel 2002, quando è stato pubblicato Moneyball di Michael Lewis, e di nuovo nel 2011, quando è uscito il film, la figura del dirigente sportivo è stata rivista nella cultura popolare. Una volta era un tizio sporco che viveva nell’ombra di palestre sospette tra denaro e allenamenti, vendendo storie con i piedi sui banconi dei bar. Ma i ragazzi di Moneyball erano più calmi, razionali. Guardavano le partite e ne ricavavano informazioni con saggezza e precisione.
In realtà, nessuna delle due rappresentazioni è corretta. Ogni persona che ha successo nel campo della ricerca di talenti trova un equilibrio a modo suo. Ma, a essere onesti, Vaccaro era molto più simile al primo ritratto che al secondo, e Air sceglie invece di interpretarlo in maniera decisamente più soft. Ecco Sonny, da solo, che guarda e riguarda registrazioni di match. Ecco Sonny, genio del basket, che non va d’accordo con i suoi colleghi, troppo aggressivi. Ecco Sonny che fa i soldi a Las Vegas grazie al suo acume per la pallacanestro. È vero che ci ha visto lungo con Jordan rispetto alla maggior parte delle persone, ma non era per questo che stava alla Nike. Era alla Nike perché era un esperto, e Air è totalmente indifferente a quella verità. Trasferisci il tutto su Damon, che sfoggia i suoi capelli biondi liscissimi e il suo tocco naturalistico, e il racconto si spegne. L’unica cosa davvero perfetta è la pancia: Damon accende l’intuito di Sonny. Ma, a parte questo, il ruolo, il personaggio e la storia richiedono un approccio completamente diverso: Mark Ruffalo con una permanente, forse, o uno Stanley Tucci invecchiato con una parrucca. Vado oltre: è difficile vedere Affleck sullo schermo e non chiedersi se forse sarebbe stato più adatto per il ruolo.
Il film si prende altre libertà che però sono meno d’impatto. No, Sonny non è andato a casa di Michael Jordan. No, la mamma di MJ non ha suggerito a Michael di ottenere una percentuale dei profitti, ma è stata determinante nello spingere Michael a scegliere l’offerta della Nike rispetto ad altri accordi con aziende di scarpe da ginnastica più prestigiose. Gli incontri di MJ con Converse e Adidas non sono andati così male. In realtà, non ha nemmeno incontrato Adidas, anche se hanno realizzato la sua scarpa da basket preferita. Jordan non è stato il primo atleta a ottenere una percentuale sul merchandising: i giocatori di tennis lo hanno fatto per diverso tempo prima che MJ firmasse con Nike. Però è stato il primo giocatore di basket a sottoscrivere un accordo del genere.
La più grande libertà che il film si prende invece è nella rappresentazione dell’agente di Jordan, David Falk. Air introduce Falk come un antagonista minore, un bulldog che cercava di tenere MJ lontano da Nike. Che cazzata. Falk aveva una visione per Jordan come portavoce multipiattaforma e voleva un partner di sneakers che fosse disposto a investire in un approccio di marketing che avrebbe presentato MJ come una merce a sé. È stato uno dei motivi principali che hanno portato Michael alla Nike. L’approccio del film a Falk puzza di stronzate à la Robert McKee (il guru degli sceneggiatori, ndt) sulla struttura della storia, che fanno torto alla persona e al personaggio.
Ma il film centra anche una verità che non ti aspetti. Phil Knight, il fondatore di Nike, l’uomo che ha guadagnato di più da tutta questa storia che ruota attorno a un paio di scarpe da basket, è stato coinvolto solo tangenzialmente nel processo di firma e commercializzazione delle Jordan. Vaccaro ha creato il terreno sociale ed economico, Rob Strasser si è fidato di Sonny e ha guidato la miniera d’oro del marketing che ha trasformato MJ nel re del basket, e Peter Moore, il designer interno di Nike, ha effettivamente realizzato l’Air Jordan I, la scarpa che ha inaugurato una vera e propria industria.
La ricompensa? Vaccaro è stato licenziato da Knight nel 1991. È stato sostituito da George Raveling, testimone al matrimonio dello stesso Vaccaro, che ha anche parlato male di Sonny sulla stampa per aver fatto le stesse cose che Nike si aspetta da George: un tentativo di Knight e della compagnia di prendere le distanze dall’ambiente inopportuno che aveva reso Knight miliardario. Lui, Strasser e Moore si sono trasferiti ad Adidas, dove hanno reso il programma di pallacanestro dell’azienda il più grande concorrente di Nike. Tutti e tre non sono stari menzionati nel discorso di introduzione alla Hall of Fame del basket di Phil Knight.
Un ruffiano del business sportivo come Darren Rovell non potrebbe mai concordare sulla verità, scritta più e più volte in ogni storia di Nike: Sonny ha creato questo mercato, ha inseguito la sua più grande star e non aveva diritto al guadagno inaspettato del suo lavoro come Phil, un jogger a cui interessava solo superficialmente il basket. L’atto finale di Air mostra una scena in cui la madre di MJ parla con Sonny, insistendo affinché Jordan ottenga una parte dei profitti dalla sua scarpa. E dice che le persone come lei, che lavorano, e suo figlio, che fa un mestiere particolare, meritano una parte di quello che fanno guadagnare a uomini già ricchissimi, e che intende prendersi quella parte per Michael.
È fiction, ovviamente, ma è anche la cosa migliore del film: il momento chiave in cui estende il suo interesse agli underdog e cerca di essere qualcos’altro, una storia sugli ingranaggi non celebrati e sottopagati che hanno effettivamente realizzato l’affarone di cui il loro capo ha raccolto i frutti. Non è che Knight non avesse una visione, ma era semplicemente la stessa che ogni uomo ricco aveva in quel momento: la globalizzazione, un luccichio negli occhi che vedeva fabbriche e negozi sfruttatori in tutto il mondo che pompavano roba Nike, non un mondo in cui Michael Jordan vendeva tutto questo soltanto essendo sé stesso. Forse il sequel di Air può celebrare quelle persone che Nike ignora nella sua autoreferenzialità. Anche se sarebbe un peccato scavalcare Sonny.