La cuffia grigia un po’ infeltrita calata sui capelli qua e là brizzolati. La giacca scura di cuoio solcata dai sacchi che carica e scarica ogni giorno per guadagnarsi da vivere. Le mani scurite dal carbone che spazzola diligentemente (e quasi un po’ ossessivamente) con il sapone ogni sera quando torna a casa, come a voler impedire a tutto quel nero di turbare in qualche modo la sua famiglia.
È la prima volta che Cillian Murphy riappare sullo schermo, dopo l’Oscar per Oppenheimer e la valanga di meme che lo ritraggono buffamente annoiato o alienato nelle interviste. E lo fa nei panni di Bill Furlong, un carbonaio di New Ross e padre amorevole di ben cinque figlie femmine a metà degli anni ’80, in Piccole cose come queste.
Ecco, cosa succede nella carriera di un attore dopo IL premio? Nel caso di Murphy, da sempre e per sempre proud irishman, succede che torni nella sua adorata Irlanda (dove peraltro continua a vivere e ha appena salvato un cinema dalla chiusura) e decida di prestare il suo inconfondibile volto e la sua fama ormai globale a un piccolo grande film, tratto dall’omonimo romanzo breve di Claire Keegan, prodotto dallo stesso Cillian (che post-Oscar ha pure aperto la sua società, Big Things Films) insieme a Ben Affleck e Matt Damon, che – leggenda vuole – sia salito a bordo del progetto proprio sul set di Oppenheimer.
Piccole cose come queste è un racconto di Natale quasi dickensiano, un dramma crepuscolare, sussurato e drittissimo, senza fronzoli, che affronta una delle pagine più vergognose della storia della cattolicissima Isola di Smeraldo: quella delle Magdalene Laundries, istituti religiosi dove fino gli anni ’90 (!) venivano rinchiuse ragazze considerate “immorali” o troppo “vivaci” per essere “rieducate”. Non è certo un tema inedito per il cinema, vedi Magdalene di Peter Mullan (Leone d’oro nel 2002 a Venezia) e Philomena di Stephen Frears. Ma Keegan, e di conseguenza lo sceneggiatore Enda Walsh (con il quale Murphy ha iniziato la sua carriera a teatro nel 1996 in Disco Pigs) e il belga Tim Mielants, già regista di alcuni episodi di Peaky Blinders, decide di non adottare il punto di vista delle vittime, ma quello di un uomo di buon cuore che non può, non riesce a volgere lo sguardo altrove dopo aver scoperto cosa succede nel convento in fondo alla strada, dove scarica carbone e torba, sotto lo sguardo di Sister Mary, alias una gelida Emily Watson (premiata alla Berlinale con l’Orso d’argento come migliore non protagonista). L’incontro tra i due è probabilmente la scena madre del film, anche se pochissimo si dice e molto accade invece nei loro sguardi.
Tutta la storia in realtà si svolge quasi interamente sul volto di Murphy, nuota nell’infinita tristezza dei suoi occhi azzurro ghiaccio, si aggrappa a quelle mani annerite, si attacca a quella giacca ormai distrutta. E Cillian offre una performance gigantesca, sottilissima, trattenutissima, molto introspettiva eppure estremamente espressiva. Quando la moglie, preoccupata che le figlie non possano ricevere un’istruzione adeguata per ripicca delle suore, gli intima: “Per andare avanti nella vita, a volte bisogna ignorare qualcosa”, Bill decide che no, lui a far finta che quell’orrore non esista proprio non ce la fa. Nel libro si domanda se fosse “possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?”. Nel film invece non pronuncia nemmeno una parola, basta quel guizzo negli occhi di Cillian Murphy.