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Creuza de Mà: il cinema, la musica, il dibattito, il mirto, e i falchi che volano sopra Morricone

Report dal festival sull’“isola nell’isola”, cioè Carloforte, che quest’anno ha ospitato Michele Riondino, Margherita Vicario, compositori e studenti, tutti a parlare (e litigare) di film. Senza red carpet, ma finendo ogni sera a suonare insieme

Foto press

«Io non capisco un cazzo di quello che dicono». A dirmelo è un sardo, mentre passeggiamo sul corso principale di Carloforte e provo a farmi un’idea del complesso rapporto che li lega a questa loro isola nell’isola, da cui scappano e ogni volta tornano con un certo stupore: «Abito a Cagliari, a mezz’ora di traghetto, ma quando vengo qui ho la percezione di fare un viaggio: i suoni, la cucina, la lingua, è tutto diverso. De André venne con Pagani a fare Creuza de mä per ascoltare come parlava la gente. È una parlata che in Liguria non senti più, e forse lui voleva ritrovare la purezza del ligure antico». E infatti penso a Pagani, quando racconta che De André voleva fare un disco che non avrebbero capito neanche a Genova, e rido: tutto fila. Perché quest’isola nell’isola è culla dell’anomalo incontro tra Liguria e Sardegna ma pure di un progetto come il Creuza de Mà, che mette insieme compositori e registi, montatori e tecnici del suono, allievi e maestri in un contesto fuori dal mondo, come fa notare Gianfranco Cabiddu, direttore artistico del festival: «L’isola ti costringe a mollare e immergerti in un tempo altro. È il posto ideale in cui riflettere e lavorare insieme, soprattutto adesso che saremo sempre più immersi in realtà virtuali».

In un’istantanea? Michele Riondino in versione rockabilly suona i Clash nel Giardino di Note, mentre nel cineteatro Michele Braga intervista altri compositori e uno studente dice a Margherita Vicario: «Io ho consumato Bingo, ma la musica in Gloria! non è filologicamente coerente». Lei non conosce risposte sbagliate: «A un certo punto partono dei timpani anche se in scena non ci sono timpani, è vero, ma sticazzi: è il gran concerto finale del film!». Et voilà: welcome to Creuza de Mà.

Capisco presto che qui il tempo scorre lento di giorno e si fa frizzante al tramonto. Di patinato non c’è niente – per la gioia della sottoscritta, che per tre giorni se ne va girando in Birkenstock e treccine. La mattina è dedicata agli incontri nel Cineteatro Mutua, il pranzo è solo buffet (tutti insieme attorno a lunghe tavolate di carta e vino), poi via libera per un po’ di mare o un power nap fino all’imbrunire, ché lì arriva il bello, con le proiezioni dei film al Cavallera e poi con la Round Midnight, ovvero i concerti nel Giardino delle Note, tirando a ballare fino alle due di notte tra cumbia, elettronica e qualche bicchiere di mirto. Il mood gira bene anche per gli allergici al jet-set (ed eccomi di nuovo), perché al Creuza nessuno si finge troppo impegnato, performante o importante (neanche quelli importanti davvero) e incredibilmente si parla spesso di cinema e musica, ma senza che qualcuno abbia voglia di chiedere: «E adesso a cosa stai lavorando?» (è un universo parallelo, ci dimentichiamo pure d’essere romani e milanesi).

Mi convinco che il merito di questa atmosfera da campo scuola un po’ savauge sia soprattutto degli studenti – tantissimi, giovanissimi, affamatissimi – che partecipano al campus “Musica e suono per cinema e audiovisivi” del Creuza conferendogli un’aria poco ordinaria. Scopro come funziona e inizio a divertirmi. Si tratta di una collaborazione avviata nel 2018 con il romanissimo Centro Sperimentale di Cinematografia: circa venti allievi tra regia, montaggio e suono si ritrovano in terra sarda insieme ad altri dodici allievi compositori, selezionati tra Accademie e Conservatori italiani in cui insegnano maestri come Pasquale Catalano, Pivio De Scalzi, Max Viale, Marco Biscarini, Giuliano Taviani, Ginevra Nervi, tutti soci affezionati del Creuza. Catalano me lo racconta con un entusiasmo contagioso appena atterro a Cagliari: condividiamo il transfer verso l’hotel e anche i suoi aneddoti sul primo Sorrentino (L’amore non ha confini, L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore: tutte musiche che portano la sua firma), sulla rivoluzione-Romanzo criminale e qualche anno dopo quella di Gomorra (anche questa è roba sua).

Gli studenti ospiti del festival arrivano a Carloforte. Foto press

L’idea del campus, invece, è di Gianfranco Cabiddu, uno come se ne vedono pochi in giro, che di fronte ai ragazzi s’illumina sul serio e ogni tanto, se mi becca a commuovermi mentre suona lo GnuQuartet, viene a punzecchiarmi: «Meglio questo dei red carpet, no?». Gianfranco, ma che te lo dico a fare, tu qui mi hai invitata a nozze. L’obiettivo è visionario ma prossimo a concretizzarsi: stanno lavorando per istituire a Cagliari una scuola di musica per il cinema, sempre in partnership con il CSC. In poche parole? Grazie al Creuza i registi e i compositori del futuro iniziano a conoscersi, dialogando insieme ai grandi del presente. Insomma, se vi piace scommettere sui nuovi autori, qui c’è da tenere gli occhi aperti.

Ma niente capita per caso, e infatti succede che qualche giorno prima di partire per Carloforte io riveda il documentario di Francesco Zippel, Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America. E allora arrivo sull’isola nell’isola con in testa ancora il ricordo di Tsui Hark che a 14 anni resta folgorato dalla Trilogia del dollaro – in ouverture fischi, percussioni, chitarra elettrica e carillon: musica mai sentita prima nel western e nel cinema – e poi c’è quell’immagine di Morricone e Leone al pianoforte insieme: Ennio suona, Sergio è chino con la testa tra le braccia, ogni tanto sussurra “qui falla più dolce, qui invece è perfetta”, e intanto Giù la testa prende forma. Sarà per questo che mentre al Creuza registi e compositori si confrontano sulla potenza di un lessico comune e Pivio si rivolge agli allievi con solennità – «Ricordatevi che voi siete degli autori a tutti gli effetti. Avete delle responsabilità nei confronti del film, quindi prendetene atto e assumetevele» – mi sembra di sentire il suono nitido di una ruota che gira. Sarà il futuro o sarà che qui è pieno di rumoristi?

Che poi gli ingredienti del cocktail sono tutti da ridere, e il cosiddetto Vicario-gate offre grandi spunti. Infatti dopo la proiezione di Gloria! mi infiltro tra gli studenti e li ascolto dibattere sul film – è ancora il primo giorno, non mi riconoscono come impostora. Questi sono agguerritissimi, penso, sono in piena botta teorica, litigano per sequenze e movimenti di macchina, pensano al cinema come tecnica e con la tecnica vogliono cambiarlo. Ma non litigate, state calmi, non serve a niente, anzi, voglio ricominciare anch’io a litigare per difendere un film. Ad esempio, a dividere loro è il modo in cui Vicario ha trattato “il fu principio di verosimiglianza”: da una parte trovo i puristi della filologia che «le musiche sono bellissime, ma dài, non era credibile nel Settecento», dall’altra i cinefili della pancia che «è proprio grazie a quei guizzi che il film mi resterà dentro». A cena il più sveglio del gruppo ci interrompe mentre con Margherita chiacchieriamo degli affari nostri e di Michela Murgia (sempre, ma in questa insolita Sardegna un po’ di più). Arriva da San Basilio e si presenta così: «È grazie alla canzone tua se nel 2020 ho iniziato a bere piña colada. A proposito, qua dietro ce sta un baretto che ne fa una buona, se vuoi…». Che dire, amico mio? Non avrei saputo fare meglio.

La mattina dopo, puristi ed empatici si ritrovano in sala a parlare di Gloria! con Vicario, la sound editor Daniela Bassani e la produttrice Manuela Melissano. Vicario incorona Nadine Labaki e Valérie Donzelli come sue muse supreme, consiglia La guerra è dichiarata perché anche Donzelli «nelle scene tragiche affida alla musica la responsabilità di raccontare» e nel frattempo Michele Braga, Max Viale e Lorenzo Tomio (ospite per parlare di MUR di Kasia Smutniak) la interrogano mischiandosi agli studenti: «Io ti faccio i complimenti come regista», «Ce lo puoi dire il budget per il sonoro su quest’opera prima?». E quando l’intrepida questione della coerenza filologia viene sollevata dagli allievi, Margherita risponde che quell’anarchia è il cuore del film, quindi o ti piace o ti fa cagare, e io penso che questo derby cinefilo sul Settecento incasinato dal jazz, dal synth arrabbiato e da una cassa dritta extradiegetica è pure il cuore dell’incontro tra musica e cinema.

Margherita Vicario si esibisce durante una serata del festival. Foto press

Che poi, a pensarci meglio, qui al Creuza de Mà è un po’ il cuore di tutto. Rapetti, Izzo, Rebaudengo e Cabrera dello GnuQuartet (che quando li vedo suonare mi chiedo io cosa campo a fare, se non so tenere in mano un violoncello) si presentano con sole tre copie del disco da vendere «perché siam genovesi, noi», e visto che sognano il rock’n’roll ma hanno fatto il Conservatorio nell’epoca in cui bisognava portare i Capricci di Paganini anziché la tesi, come i pazzi riadattano i System of a Down per quartetto, infilano i riff di Hendrix nelle partiture del re dei romantici dell’Ottocento, e alla fine scendiamo tutti a patti col diavolo insieme a Paganini (credo d’aver visto il leader dei filologi battere il tempo col piede sinistro).

Poi c’è Michele Riondino che di giorno chilla a passeggio per Carloforte, e poi si lancia in due ore di chiacchiere su Palazzina LAF insieme agli studenti. «Vengo da una paesino vicino Colleferro dove c’è un grande cementificio», gli dice uno di loro. «Mi è sembrato un tema importante, quello del male necessario: perché tutti conoscono il problema ma sono disposti ad accettarlo, finché non ti si ammala un amico, un genitore, un professore». E Michele è un altro che non conosce risposte sbagliate: «Molti si aspettavano da me un film incentrato su tematiche ambientaliste. In tutti questi anni di attivismo siamo sempre stati chiamati ambientalisti, come se fosse un termine dispregiativo. È che è difficile invece considerarci operaisti. Io nasco in una famiglia di operai: mio padre, mio zio, mio fratello, che si è ammalato. Quello che mi ha spinto a fare questo film è la prima forma di inquinamento che subiamo: quella delle coscienze. Il ricatto». Però l’ultima sera Riondino vuol far ballare la gente, e in effetti la gente balla di brutto. Accompagnato dalla band tarantina Revolving Bridge, canta e suona Elvis, Chuck Berry e gli Stray Cats. Dicono che il suo ultimo live al Creuza sia finito con un’invasione di palco: non mi stupisce (ma soprattutto, c’è qualcosa che Michele Riondino non sappia fare?).

Nel suo diciottesimo anno di vita, quello in cui diventa maggiorenne, il Creuza de Mà è animato da chi maggiorenne lo è da poco e dagli esordi di tre attori-registi che, seguendo strade diverse, hanno fatto del cinema sociale anche un’operazione musicale (Vicario con Dade, Riondino con Teho Teardo, Kasia Smutniak con Lorenzo Tomio per MUR). Qui dove tutto può essere domandato e confessato (mi ricorda il programma Rai La conferenza stampa: 350 adolescenti che intervistano artisti celebri, e quelle sì che sono Belve da temere), per amore della causa a un certo punto vale tutto: Riccardo Giagni che racconta le ossessioni dei registi: «Non devi mai dirgli la parola “trombone”, perché il trombone li terrorizza». La viola invece piace a tutti ma lui non la può soffrire, e infatti: «Molto spesso ho dato un violoncello in terza posizione spacciandolo per viola»; Margherita Vicario che mette a nudo le differenze tra disco e colonna sonora: «È molto più difficile fare un album, dove devi trovare ritornello e chorus mentre la discografica deve fare i soldi. Io ti vedo era una canzone che volevo mettere in un disco e la Universal ha detto “anche no”, ma con il film le ho dato un’altra vita».

E vai così, con Riondino che svela anche i suoi trucchetti d’attore: «Se ti presenti da un regista e gli dici: “Secondo me il personaggio dev’essere zoppo”, finisce male. Ma se gli dici: “Sai, ho pensato che la musica di questo personaggio è un po’ sincopata…”, be’, ça va sans dire». Fino alla gag con Michele Braga sul brano di Diodato, La mia terra: «Antonio non ha storto il naso, era felice e commosso», racconta Riondino; ma Braga gli fa notare: «In realtà stare nei titoli di coda per un cantante è una cosa molto positiva. Tant’è che l’utilizzo del brano costa molto di più». «Pensa te, io temevo di fargli un torto. Allora ecco perché non ha detto un cazzo!». E giù a ridere.

Per raggiungere Carloforte bisogna rincorrere la terraferma due volte: prima in aereo e poi in traghetto. Io arrivo sull’isola nell’isola al tramonto e la saluto mentre albeggia: non ascoltare De André sul ponte vuoto del battello è sacrilegio. Perché Carloforte è davvero un sentiero che si fa desiderare ma che porta direttamente al mare, e se uno guarda bene, in questo lembo di Sardegna in cui il vento tira sempre, sul mare ci sono le increspature che Faber cantava.

Lo GnuQuartet suona alle Ciasette, una riserva dell’Isola di San Pietro. Foto press

Ci sono anche mentre il sole cala nell’acqua, l’ultima sera che passo al Creuza de Mà: un grosso pullman ci carica tutti insieme, stampa, studenti e autori, e ci lascia alle Ciasette, una riserva dell’Isola di San Pietro meravigliosamente scolpita dalle erosioni alveolari. È un paesaggio lunare che grazie al Creuza si trasforma in un anfiteatro esclusivo, in cui bisogna stare attenti a non disturbare gli unici padroni di quest’area protetta: i falchi della regina. Qui, in un silenzio surreale nel mezzo della scogliera, lo GnuQuartet torna ad esibirsi: vietato parlare ad alta voce, vietato fumare e vietato applaudire. Per farlo agitiamo le mani in aria, come il gioco della farfallina che fanno i bambini. E sfarfallando inizia a tramontare a suon di musica, finché, con una puntualità che nessuno dei maestri del suono qui presenti avrebbe potuto raggiungere in montaggio, uno stormo d’uccelli si alza sulle nostre teste.

Sono loro: i falchi della regina si affacciano sul flauto di Nuovo Cinema Paradiso e poi iniziano a planare sugli archi di C’era una volta in America. Per un attimo ci guardiamo tutti con il terrore negli occhi: mica avremo sulla coscienza l’estinzione di una specie protetta? Poi capiamo che no, stanno solo volando su Morricone. Sono usciti fuori a godersi lo spettacolo. Nella mia personalissima scala d’estasi che va da 0 a Danzón No. 2 diretta da Alondra de la Parra, questo momento si posiziona ad un livello incredibilmente alto.

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