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Dal libro al film: il Premio Strega e il “suo” cinema – Parte I

Il primo a vincere (e a finire sul grande schermo) è stato Ennio Flaiano con ‘Tempo di uccidere’. Poi, nel corso degli anni, la qualità si è abbassata notevolmente. Fino alla crisi (letteraria e audiovisiva) di oggi

Foto: Archivio Cicconi/Getty Images

Una volta si diceva “cinquina”, da quest’anno sono sette gli autori che si contenderanno il Premio Strega. Trattasi di Mario Desiati (Spatriati), Claudio Piersanti (Quel maledetto Vronskij), Marco Amerighi (Randagi), Veronica Raimo (Niente di vero), Alessandra Carati (E poi saremo salvi), Fabio Bacà (Nova) e Veronica Galletta (Nina sull’argine). Lo Strega, è notorio, è il più importante riconoscimento letterario del Paese. Chi lo vince entra nel cartello nobile della nostra letteratura: naturalmente, siccome niente è perfetto, non lo è, a maggior ragione, un premio che smuove prestigio e denaro. Va detto, ed è polemica consolidata, che lo Strega era – ed è – giurisdizione delle major che, mettendo in campo il proprio potere, quasi mai se lo sono lasciato scappare. A scapito di scrittori magari migliori ma pubblicati da editrici minori. Tuttavia lo Strega, dal 1947, ha quasi sempre premiato il merito. È la qualità del merito che, nei decenni, ha subito forti… mutazioni. Ma sarebbe un discorso troppo vasto. Rimaniamo al tema del titolo.

Lo Strega è un premio di letteratura e di cultura da fascia alta. Raramente si è preoccupato del grande pubblico, e la critica è sempre intervenuta in quel senso: quelli dello Strega sono libri di “qualità critica”, diciamo così. Farò in questo intervento molti nomi, perché, ripassando la storia dello Strega e dei film tratti dai romanzi premiati, ho visto purtroppo emergere, nelle epoche, la contrazione della qualità. Il termine prevalente, da molto tempo, è crisi: crisi della narrativa, crisi del cinema. Stralcio il fenomeno devastante, che tutto devasta appunto, della crisi dell’editoria e di tutto di questa epoca. Sappiamo. Alcuni miei romanzi sono entrati nelle cinquine dei premi (non dello Strega), e spesso sono stati premiati. Come critico e romanziere conosco l’argomento dall’interno, e chi mi legge sa bene quanto mi stia a cuore il rapporto libro-film.

I nomi che seguono sono quelli che, dal 1947 a salire, hanno ottenuto, fra gli altri, il premio: Flaiano, Cardarelli, Pavese, Alvaro, Moravia, Soldati, Buzzati, Morante, Bassani, Comisso, Tobino, La Capria, Cassola, Lampedusa, Prisco, Ginzburg, Arpino, Volponi, Bevilacqua, Piovene. Maestri, qualità grande. Credo che basti una licenza di scuola media per conoscerli. E credo che il concetto sia importante, significa che quegli scrittori non appartenevano solo alla fascia aristocratica degli addetti. Guido Piovene vinse nel 1970. Sempre ricorrendo alle sintesi “impossibili”, dico che quell’anno è uno spartiacque: dagli anni Settanta, guarda caso, la qualità si contrae. Come nel cinema. La sintesi sarebbe questa: con gli ultimi anni Sessanta la società, la cultura e il mondo vivono la trasformazione che conosciamo. Prevale, in tutte le fasce – i giovani, i sindacati, il lavoro, le donne, le università, la politica – non più il sentimento individuale, ma quello collettivo. Prevalgono l’ideologia e l’appartenenza. È una cultura che detta legge e occorre, da parte dell’intellighenzia, assumerla e aderire.

Il cinema, parlo di movimento generale naturalmente, ne risente perché deve limitare quella che è la sua prima opzione, l’evasione; e ne risente anche la letteratura, perché vede ridursi il ruolo del dolore individuale, che è, da sempre, il cuore e il centro di tutti i racconti. Molti autori dovevano, davanti al foglio, porsi il quesito “piacerò alla critica”, e così ecco la mediazione fra ciò che volevano e ciò che dovevano scrivere. Ecco dunque la cosiddetta “crisi”. Non faccio altri nomi, ma dal 1970 i vincitori dello Strega, salvo eccezioni, fanno parte… della “aristocrazia critica”. Occorre una laurea in Letteratura, e magari non basta, per conoscerli e frequentarli.

Veniamo ai film. L’inizio fu propizio: il primo romanzo premiato, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, edito da Longanesi, sarebbe diventato un film nel 1989 per la regia di Giuliano Montaldo. Si racconta una storia d’amore, tragica, nel quadro della guerra d’Etiopia del ’36. Ma… niente di memorabile. Produco due brevi stralci critici di dizionari che fanno testo. Newton Compton: “Purtroppo la materia fortemente letteraria dei dialoghi è rimasta molto simile al testo originale e ne soffre il realismo”. Baldini & Castoldi: “Elegante ma inutile trasposizione dell’omonimo romanzo di Flaiano, senz’altro meno intrigante e conturbante del testo originale”. Sì, libro e film, roba diversa: l’ennesima conferma. Ma Flaiano avrebbe avuto grandi soddisfazioni in avvenire, come “penna” di Federico Fellini…

Fine della prima parte

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