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Dal libro al film: l’aggressivo e trasgressivo Gore Vidal, che voleva fa’ l’italiano

Da ‘Ben-Hur’ al rapporto con Fellini («Noi siamo produttori di illusioni»), lo scrittore e sceneggiatore è stato esagerato in tutto, dall’ostentazione (per i tempi) dell’omosessualità alle feroci opinioni politiche. Bigger than life: come il cinema

Foto: Archivio Cicconi/Getty Images

La Columbia University di New York, con un convegno, ricorda Gore Vidal a dieci anni dalla morte. È stato uno dei più grandi e popolari scrittori americani. Aveva tutto per la popolarità: il talento, la provocazione estrema, l’ostentazione dell’omosessualità, la vita mondana e “ricca”, il coraggio. E le opere, naturalmente. Qualche anno fa ho seguito un corso su Tennessee Williams, a San Francisco. Venne anche Vidal a raccontare qualcosa di quello che era stato un suo grande amico. È banale dire del fascino e del carisma di Vidal. Per decenni è stato uno dei più tenaci critici del suo stesso Paese. Soprattutto della cultura repubblicana, quella di destra.

Adesso abbiamo due cineasti importanti che percorrono la strada della critica a oltranza dell’America, Oliver Stone e Sean Penn. Ma rispetto a Vidal, su quella strada, rimangono indietro di molte lunghezze. Ha scritto libri importanti, di narrativa e di saggistica. Il “sistema” americano, da lui non amato, naturalmente lo ha ricambiato. E così la sua opera di critico e di saggista è sempre stata considerata quella di un isolato. Del resto un critico non “deve” essere perentorio, deve lasciare qualche margine, e Vidal proprio non riusciva a mediare. Ma come narratore, anche i suoi detrattori hanno dovuto inchinarsi.

Era ricchissimo di famiglia, suo nonno era stato senatore. Un paradosso vero vuole che sia nato a West Point, culla del militarismo americano. Quel militarismo che Vidal ha sempre odiato con tutto il cuore. Cercò anche di entrare in politica, si candidò due volte e due volte venne bocciato. La sua cultura “contro” dunque non gli aveva giovato nella professione, e naturalmente non gli giovò al momento delle candidature. Non gli era bastato essere cugino di Jacqueline Kennedy e amico personale del Presidente suo marito.

Aveva un ottimo rapporto con l’Italia. C’era stato per la prima volta da ragazzino, quando, a una rappresentazione della Turandot, aveva incrociato il Duce, un altro che non godeva delle sue simpatie. E fu proprio in Italia che conobbe Tennessee Williams. Soprattutto conobbe Fellini. I due grandi maestri erano fatti per intendersi, e Fellini gli ritagliò uno spazio prezioso in Roma. Nel film Vidal fa sé stesso, è seduto a una delle tante tavolate che raccolgono il mondo. Federico lo riprende, formula una domanda e Gore risponde: “Mi domandate perché uno scrittore americano vive a Roma. Prima di tutto perché mi piacciono i romani, che non gliene frega niente se sei vivo o sei morto, sono neutrali… Roma è la città delle illusioni, non a caso qui c’è la Chiesa, il governo, il cinema. Tutte cose che producono illusione, come fai tu, Federico, come faccio io…”.

Vidal ha toccato un altro film, Ben-Hur, il colosso dei colossi. Il produttore Sam Zimbalist aveva affidato la sceneggiatura a Karl Tumberg, che non riusciva a dare quel guizzo in più al romanzo di Lew Wallace. Allora chiamò Vidal, in privato. Gli disse di dargli una mano, che gli avrebbe dato tanti soldi ma che non lo avrebbe accreditato nei titoli. Vidal accettò e intervenne sui caratteri, ci mise qualità e un pizzico di trasgressione: che starebbe nel rapporto di amore-odio fra Ben-Hur e Messala. Insomma una certa omosessualità latente. Ben-Hur vinse ben undici Oscar. Ma si sa, Vidal era uno che esagerava sempre.

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