Franco Zeffirelli si è molto impegnato su Shakespeare, “filmando” – oltre a Romeo e Giulietta, già proposto nella rubrica – anche La bisbetica domata, Otello e Amleto. Il regista fiorentino merita un “replica”. Con un titolo che è considerato il dramma dei drammi. In assoluto.
Amleto (The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark) è una tragedia in cinque atti, in versi e in prosa, che William Shakespeare scrisse fra il 1600 e il 1602. Il soggetto. Al principe Amleto appare, sugli spalti del castello di Elsinore, il fantasma del re suo padre, che gli rivela di essere stato ucciso dal fratello Claudio con la complicità della propria moglie, Gertrude, madre di Amleto. Amleto giura vendetta e si finge pazzo per poter più facilmente far luce sul delitto. Le azioni del principe sono strane e incomprensibili: quelle di un pazzo, appunto. Maltratta la bella vergine Ofelia, si scaglia contro sua madre, uccide Polonio, padre di Ofelia. Riesce a sottrarsi ai tentativi di Claudio, che cerca in tutti i modi di neutralizzarlo, magari uccidendolo. Il suicidio della disperata fanciulla induce suo fratello Laerte a vendicarsi. Sfida Amleto in duello. Il principe non avrà scampo, perché la punta della spada di Laerte è avvelenata, così come il vino offerto da Claudio. Muoiono tutti: Amleto, sua madre che ha bevuto il vino, Laerte nel duello e Claudio ucciso da Amleto, che affida all’unico amico fedele, Orazio, il compito di narrare la sua tragica storia.
La chiave, il registro fondamentale dell’Amleto di Zeffirelli, sta in una spiegazione, sintetica e chiarissima che lo stesso regista ha dato: «Questa tragedia è stata spesso presentata come la summa dell’esistenzialismo, gravandola di complicazioni filosofiche. Volevo tornare alle origini: gelosia e vendetta. Shakespeare aveva scritto un dramma storico, ricco ed emozionante: l’assassinio di un re per mano di suo fratello con la complicità della regina, poi scoperto dal figlio della vittima. Era una tragedia di vendetta, una saga famigliare raccontata come una grande storia epica, piena di fatti e di azioni. Ecco che cosa, in origine, aveva inchiodato il pubblico per quattro secoli e… per cinque ore».
Per il modello Amleto Zeffirelli conosceva alla perfezione la performance di Laurence Olivier nell’edizione, storica, del 1948. Un titolo che, evento rarissimo, si era aggiudicato sia l’Oscar che il Leone d’oro a Venezia. Laurence era lo “shakespeariano” per eccellenza. Stava al Bardo come l’ossigeno sta all’acqua. Aveva fatto un film “cinematografico” – movimenti di macchina, scenografie e atmosfere gotiche – da autentico consumato uomo da cinepresa, lui, gran profeta, anzi, nume assoluto del teatro. E aveva dato di Amleto il ritratto di un tormentato imploso, un introverso con richiami alla chiave freudiana, tanto di moda in quell’epoca.
Zeffirelli colse, nella perfezione filologica, accademica, del grande inglese, qualcosa di assoluto, ma sorpassato. Così pensò a un carattere opposto, un giovane ambizioso e intelligente, educato per essere il migliore in tutto, sempre in competizione dunque sempre sul filo dei nervi e dell’aggressività. E dunque si impegnò su un protagonista del tutto diverso, un uomo di cinema, addirittura d’azione, impensabile per chiunque: Mel Gibson. L’attore australiano era noto per ruoli d’azione alla Mad Max, davvero lontani da Amleto. Il regista racconta che non dovette neppure faticare molto a convincerlo, stimolandolo in una sfida tanto difficile. E la sfida fu vinta, Gibson se la cavò benissimo. Aiutato, da noi, ancora una volta da un Giancarlo Giannini che aggiunse molti punti all’interpretazione.
Inoltre, portò al cinema una grande fascia che andò a vedere l’Amleto di Shakespeare, perché a farlo c’era “Mad Max”. A fronte di un protagonista tanto anomalo, Zeffirelli dovette, per compensare, ricorrere per gli altri ruoli fondamentali a gente di teatro. E scelse i migliori, inglesi. Altri “profeti”, magari non santificati come il gran maestro Olivier, ma shakespeariani di vertice: Paul Scofield (il fantasma del padre), Alan Bates (Claudio), Ian Holm (Polonio), Helena Bonham Carter (Ofelia). Solo Glenn Close, la madre, era americana.
Il film ridimensiona dunque l’aspetto politico e storico della vicenda, privilegiando i rapporti: soprattutto quello fra madre e figlio, tanto intenso da… sfiorare l’incesto. Gibson mise in campo le sue attitudini che sarebbero emerse nei suoi film successivi, una passione quasi violenta. Magari, come detto, poco shakespeariana o olivieriana, ma molto cinematografica.