Allora, dove eravamo rimasti? Ah, giusto.
La Casa Atreides, la nobile famiglia che governava il pianeta ricco di spezia di nome Arrakis, non esiste più. Il suo patriarca, il duca Leto, è morto. Si presume che anche il suo erede Paul Atreides e la madre del ragazzo, Lady Jessica, siano stati uccisi. La Casa Harkonnen, guidata dal corpulento e ciberneticamente potenziato barone Vladimir Harkonnen, prenderà di nuovo il controllo di Arrakis e sfrutterà i suoi deserti per ottenere la sua preziosa risorsa, estremamente allucinogena. All’insaputa del barone, del suo imponente nipote Glossu “Bestia” Rabban (che governa il pianeta) e dello stesso imperatore galattico, Paul e Jessica sono sopravvissuti a un attentato alle loro vite. Sono stati accolti dai Fremen, la tribù beduina che chiama casa quelle sabbie imprevedibili. Ha anche scoperto che Chani, la donna dei sogni di Paul – in senso letterale: il ragazzo continua ad avere queste folli visioni apocalittiche – è reale. Paul e sua madre accompagnano i Fremen nella loro missione di guerriglia contro gli Harkonnen. Alcuni credono addirittura che Paul possa essere il messia menzionato nelle loro profezie. “Questo è solo l’inizio”, dice Chani. Non ha idea di quanto abbia ragione.
Per alcuni, questi nomi riportano molto, molto indietro nella memoria; se aggiungiamo che sono personaggi interpretati da Timothée Chalamet, Zendaya, Oscar Isaac e da una schiera di attori altrettanto celebri, vedremo i loro occhi brillare. Per molti altri, gli eroi e i cattivi, i mentori e i mostri che popolano il romanzo di culto di Frank Herbert del 1965 sono vecchi amici, e le loro imprese sono impresse nel cervello dei lettori come un vangelo. Una delle cose più belle di Dune, l’adattamento parziale del libro originale diretto da Denis Villeneuve nel 2021, era che si poteva seguire la sua storia e appassionarsi alle sue immagini indipendentemente dalla propria posizione in quella scala di valori. È il classico racconto del viaggio dell’eroe – parafrasando lo scrittore/docente di cinema Howard Suber – di un ragazzo che inizia il cammino verso il suo destino. Ed è il tipo di adattamento fedele, ma coraggioso e adeguatamente folle, che i fan non vedevano l’ora di vedere, la perfetta fusione tra visione d’artista e materiale originale.
Il film di Villeneuve esplicitava tutte le sue ambizioni direttamente nel titolo: si trattava di una vera e propria “parte uno”, che sfiorava le tre ore e si fermava circa a metà del libro. Se sarebbe riuscito o meno a finire ciò che aveva cominciata era in sospeso, almeno fino a quando i suoi mecenati (leggi: i produttori) non si fossero convinti che c’era davvero un pubblico pronto per i vermoni giganti, le confraternite mistiche (un applauso alle Bene Gesserit!) e un Muad’Dib pieno di dilemmi.
Ringraziate gli dèi (qualunque siano i vostri) che Villeneuve abbia ottenuto il via libera per un altro capitolo. Il suo Dune – Parte due non è solo la continuazione di una saga. Il regista franco-canadese ci regala un’espansione e un approfondimento del mondo costruito sulle basi del ciclo di Herbert, una storia d’amore Young Adult amplificata fino a proporzioni bibliche, una tragedia shakespeariana sul potere e la corruzione e un secondo atto visivamente sontuoso che fa sembrare il suo impressionante e coinvolgente predecessore una semplice prova generale. Villeneuve ha superato sé stesso. Soprattutto, ha reso giustizia alla portata, alla scala e alla totale stravaganza della seconda parte di una pietra miliare della stoner-lit (letteralmente: “letteratura da fattoni”, ndt) senza smussarne gli spigoli. È smaccatamente geek. Ed è due volte più “cinematografico” del precedente.
Dopo un breve prologo che ci presenta l’imperatore rettiliano interpretato da Christopher Walken e la sua figlia pazzoide, la principessa Irulan (Florence Pugh), siamo di nuovo nel deserto, a guardare Paul (Chalamet) e i suoi compagni Fremen che attaccano un plotone di Harkonnen. Il giovane si è in qualche modo adattato ai modi dei suoi ospiti indigeni, ma è ancora un outsider. Mentre combatte al fianco di Chani (Zendaya), tuttavia, percepiamo immediatamente il legame che c’è tra i due. Lady Jessica (Rebecca Ferguson) è in procinto di diventare una sacerdotessa Bene Gesserit; è anche incinta della sorella di Paul, che conversa telepaticamente con la mamma direttamente dall’utero. Il leader dei Fremen, Stilgar (Javier Bardem), ha preso il ragazza sotto la sua ala protettrice e comincia a dar segno di credere che questo (ex) aristocratico possa essere l’Eletto. Ad Arrakeen, la capitale del pianeta in stile Giger – il fantasma dell’adattamento mai andato in porto firmato Alejandro Jodorowsky infesta la scenografia – Glossu “Bestia” Rabban (Dave Bautista) vuole sapere perché i suoi soldati vengono attaccati. Suo zio (Stellan Skarsgård) gli lancia un ultimatum. Amore e guerra sono nell’aria. E il nodo cruciale è: chi controllerà la potentissima spezia?
È in questa lunghissima ouverture di Dune – Parte due che si delinea la posta in gioco sia per Paul che per la lotta per il pianeta, con Villeneuve che dimostra ancora una volta di saper fondere l’occhio del visionario con l’istinto per la spettacolarità di un grande regista. Capisce come la fantascienza sia un filo conduttore tra il familiare e l’ultraterreno, aggiungendo tocchi bizzarri che suggeriscono galassie lontane, lontanissime, mentre fonda il dramma umano con la solennità e lo rafforza con l’adrenalina. Il regista sa anche come pensare le immagini per uno schermo gigante, riempiendo la scena con tocchi di grazia inaspettati in mezzo al rumore e alla furia. Guardare Paul e Chani affrontare navicelle nemiche con l’equivalente di un lanciarazzi, mentre si nascondono dietro le gambe d’acciaio di una macchina che raccoglie la spezia, ci fa sentire nelle mani di qualcuno che sa perfettamente come coreografare l’azione. Mentre sussultiamo quando questi due combattenti corrono in orizzontale mentre una nave spaziale in fiamme cade in verticale dietro di loro con un tempismo perfetto, ci si rende conto di stare guardando un vero cineasta al lavoro. Uno che riesce a far sembrare l’inquadratura fissa di un personaggio che osserva un vasto paesaggio appassionante quanto uno scontro a fuoco con migliaia di comparse. Persino le sue immagini non in movimento sono emozionanti.
Ma questo secondo atto è anche quello in cui vediamo Paul Atreides diventare grande e, insieme a lui, l’attore che lo interpreta. La seconda parte è quella in cui ci troviamo di fronte a un ragazzo che diventa uomo, e che poi si evolve in un salvatore forse riluttante (ma alla fine non poi così tanto). Si ha la sensazione che Chalamet non si sia solo calato nel ruolo, ma che abbia fatto un salto di qualità per interpretare il Paul 2.0, anche se il suo timido corteggiamento del personaggio di Zendaya lo fa sembrare un rubacuori da rom-com. Il fatto che in questo secondo capitolo il personaggio di Zendaya sia molto più rilevante e che sia sempre all’altezza quando si tratta di abbattere i nemici e tenere alta l’attenzione gli dà una grossa mano.
Ma, nonostante la forza di Chani, è Chalamet colui che deve sopportare il peso e la paura del potere di Paul, la sua riluttanza a prendere il mantello di Muad’Dib e il lento incrinarsi della sua bussola morale sulle sue esili spalle. Se nella Parte uno l’incertezza di Atreides poteva confondersi con lo spaesamento dell’attore, stavolta non c’è questa meta-confusione. Chalamet sembra essere finalmente maturato, ed è totalmente nei panni di questo giovane uomo che si chiede se sia adatto a essere un leader – messia o non messia, questa è la domanda – anche quando guida le masse nella battaglia. Quando Paul riesce finalmente a domare un gigantesco sandworm in corsa, la vittoria è duplice.
È un passaggio necessario, perché è in quel momento che Dune – Parte due decide di sfoderare il “cattivo dei cattivi”. I fanatici di Dune ricorderanno, con affetto o meno, l’interpretazione del temibile Feyd-Rautha da parte di Sting, con tanto di abito alato, nella versione di David Lynch del 1984. Quella performance era perfetta per inaugurare la pubertà degli adolescenti nell’era Reagan, ma non all’altezza di quell’assassino squilibrato. La prova di Austin Butler è, al contrario, tutt’altro che camp. Rasato, pompato e dotato di un sorriso da perfetto maniaco, questo Rautha è uno psicopatico al 100%. Il fatto che Villenueve lo riprenda come una statua di marmo che prende vita, in una scena di combattimento fotografata in bianco e nero, lo rende ancora più sinistro. Nessuno non è al sicuro, quando arriva lui. Bastano pochi secondi per farvi dimenticare che, non troppo tempo fa, Butler interpretava un’icona del XX secolo (Elvis Presley, ndt).
Quando i due avversari finalmente si scontrano di fronte a tutti i personaggi principali rimasti in scena, sperando che i loro coltelli si scheggino e si frantumino, abbiamo già visto parecchio di questo secondo episodio: Léa Seydoux nei panni di una seducente sacerdotessa, Anya Taylor-Joy che fa capolino per un cameo che non passa inosservato, il ritorno di Josh Brolin come mentore scorbutico, un sole che sembra un Bat-segnale, truppe attaccate non da uno ma da ben tre sandworm cavalcati da un vero e proprio esercito. Eppure, si ha l’impressione che la storia sia appena cominciata. Ce ne andiamo così come siamo entrati, sapendo che arriveranno altri capitoli, ma ubriachi di quei triangoli amorosi e di quelle battaglie che porteranno a scontri ancora più violenti tra Case rivali. Non è uno spoiler dire che è tutto pronto per un terzo film. Fino ad allora, però, Villeneuve e il suo cast vi lasceranno con il sapore di un sequel sci-fi che sembra più grande, più audace e in qualche modo migliore di quello che lo ha preceduto.