Nella primissima sequenza di Asteroid City, il narratore, interpretato da Bryan Cranston, avvisa fin da subito il suo pubblico che ciò a cui stanno per assistere non è nient’altro che la rappresentazione televisiva di quella che fu l’ideazione e la messa in scena dell’omonimo spettacolo teatrale del drammaturgo Conrad Earp e del suo conseguente successo. “Asteroid City non esiste, è un’opera di fantasia creata espressamente per questa trasmissione. I personaggi sono fittizi, il testo immaginario, gli eventi un’invenzione improbabile, ma insieme forniscono un resoconto autentico del retroscena di una produzione teatrale moderna”.
Ragionando sul perenne binomio che contraddistingue l’opera registica di Wes Anderson (qui la nostra ultima cover story), in cui la realtà viene continuamente traslata attraverso un ipotetico racconto, quanto annunciato dal narratore di Asteroid City sembra illustrare e mostrare per la prima volta come la musica dei suoi film entri prepotentemente nella visione dell’autore: se la realtà non sembra essere così autentica (anzi, spesso è del tutto artificiale), allora la musica ne svela i retroscena, o meglio ciò che sarebbe potuto essere ma non vuole essere messo in luce.
Wes Anderson, sin da Rushmore, ha voluto mostrare apertamente la sua realtà, il suo mondo così tempestato di ricordi e simmetrie, tanto da far diventare la musica la sua espressione verbale. Un bambino che gioca con le emozioni e le canzoni è il simbolo della sua voce interiore. Coadiuvato dal suo fido music supervisor Randall Poster, che per sua stessa ammissione non ha mai combinato granché come musicista né ha mai lavorato per un’etichetta discografica, ha costruito il suo canzoniere magico pescando dai ricordi di una soffitta musicale in cui le parole venivano di conseguenza legate indissolubilmente ai personaggi.
Il tumulto sonoro adolescenziale di Max Fischer, il teenager interpretato da Jason Schwartzman in Rushmore, viene ritratto attraverso la visione estetica e musicale della british invasion degli anni ’60, in particolar modo enfatizzando, come raccontato dallo stesso music supervisor in un’intervista a Vice, l’anomalia tra l’abbigliamento in giacca e cravatta che contraddistingueva la band inglesi (come i Kinks e i Creation) e la ribellione e la potenza sonora che delineavano attraverso le loro canzoni. Così come il giovane amore tra Sam e Suzy in Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore si sviluppa attraverso un giradischi portatile che trasmette a oltranza Le temps de l’amour di Françoise Hardy, cadenzandone i momenti e diventando di conseguenza la colonna sonora del loro primo amore.
Randall Poster spiega che la musica si rivolge apertamente ai personaggi, che si sentono perennemente fuori posto nell’epoca in cui vivono, e credo che questo sia un tema ricorrente in tutti i film di Wes Anderson, non riconducibile unicamente al momento storico in cui sono ambientate le sue storie ma allo stato emotivo che gli stessi protagonisti stanno affrontando. Non è infatti casuale imbattersi in molteplici vie sonore che definiscono un momento, un attimo determinante nella vita dei suoi personaggi.
È il caso della Margot Tenenbaum di Gwyneth Paltrow, che viene mostrata inizialmente attraverso le note di Sheena Is a Punk Rocker dei Ramones ma che si scioglie attraverso gli occhi innamorati di suo fratello Richie nel fermo immagine di These Days di Nico; o del padre (Gene Hackman) che riscopre il figlio (Ben Stiller) attraverso i nipoti, portandoli a scoprire tutte le vie impervie di New York narrate dalla voce di Paul Simon. Sono semplici elementi che raccontano con una delicatezza compositiva il compiersi di fiabe contemporanee dal sapore agrodolce.
Come giustamente faceva notare Judy Berman in un bellissimo articolo apparso su Pitchfork nel 2018, mentre le sincronizzazioni musicali di Tarantino si sviluppano principalmente come commento ironico o letterale alla storia, gli spunti musicali di Anderson definiscono l’atmosfera e il luogo offrendo allo stesso tempo una visione sottile della vita interiore dei personaggi. Ciò significa che le sue colonne sonore definiscono uno spazio e un tempo immaginifico in cui delle volpi possono ballare sotto le notte dei Rolling Stones o dei Beach Boys o un oceanografo di fama mondiale può finalmente raggiungere la sua più importante scoperta navigando attraverso le note dei Sigur Rós.
Molti dei film di Wes Anderson sono nati da un nucleo musicale autentico che a volte, come dichiarato dallo stesso autore, si stabilisce ben prima della storia stessa. Moonrise Kingdom, ad esempio, si concentra completamente su un’opera musicale del compositore Benjamin Britten, Noye’s Fludde, a cui Anderson prese parte nel 1979 durante una recita scolastica, ed è stata questa esperienza a creare il mondo del film. “Ho lavorato con Wes su tutti i suoi film, e di solito c’è una canzone o un momento musicale che diventa questo seme da cui l’intera storia cresce”, dichiara Randall Poster a Pitchfork. “Quando Wes ti indica una direzione, sai che sarà come l’acqua in un deserto, qualcosa in cui lanciarti con tutto te stesso”.
Anderson e Poster sono come due cercatori d’oro nella California del Far West alla ricerca del proprio Golden State musicale. Imbattersi nei loro racconti su come hanno raggiunto Calcutta e di come successivamente hanno convinto la fondazione del celebre regista indiano Satyajit Ray a concedergli la possibilità di registrare i master delle colonne sonore dei suoi film per Un treno per il Darjeeling non basterebbe a spiegarne la passione e la competenza che nutrono verso i mondi musicali più nascosti, dai “lati B” a tutta la musica per il cinema.
Si sa che i cercatori definiscono la propria vita a seconda delle scoperte che ottengono, non fermandosi, continuando pedissequamente verso la propria strada, e la loro esistenza si fa esempio di molteplici spunti che non li abbandoneranno mai, così che un addetto alla sicurezza possa immedesimarsi in David Bowie (sempre nelle Avventure acquatiche di Steve Zissou) o un affermato fotografo di guerra annunciare ai propri figli la scomparsa della madre servendosi di canti pastorali americani e skiffle music (in Asteroid City). Wes Anderson si serve dei ricordi come Paul Auster ne combina le infinite possibilità narrative, e la musica fa sì che, nonostante non si riesca a comprendere a pieno il fine dell’opera, sia ugualmente importante continuare a raccontare la storia.