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‘Fiore mio’: nel primo film di Paolo Cognetti ci sono tutte “le cose che sono urgenti”

Lo scrittore delle ‘Otto montagne’ firma un documentario che non dà soluzioni, ma lascia aperte le domande sull’ambiente e il nostro posto del mondo. E anche la colonna sonora di Vasco Brondi si riempie di vuoti. E forse è proprio nel silenzio che c’è il senso di tutto

Foto: Daniele Mention

«La natura…». Così comincia una mia domanda a Paolo Cognetti durante la presentazione a Milano di Fiore mio, il suo primo film da regista (prodotto da Samarcanda Film, Nexo Studios, Harald House ed EDI Effetti Digitali Italiani, nelle sale il 25, 26 e 27 novembre con Nexo Digital). E lui sorridendo mi interrompe subito: «Ti prego, non usare la parola “natura”!». «Io però intendevo “la natura politica ed emotiva del tuo film”», replico, e allora lui ride, e si rilassa. E già qui c’è il peso appunto politico di Fiore mio, un lavoro che, mettendolo fisicamente in prima persona nello scenario che nell’immaginario di tutti più gli appartiene (la montagna), quasi lo porta via di lì, o quantomeno ne ridimensiona, come lui forse voleva, l’essere diventato un simbolo.

Dopo Le otto montagne, e lo Strega, e il successo anche per così dire geografico, quasi da Lonely Planet, di quel libro, Cognetti per tutti è diventare l’uomo della montagna, «e per un po’ anch’io ho creduto di diventare davvero un montanaro: anche solo a dirlo, mi scende la lacrimuccia». È invece rimasto un ragazzo di città prestato alla montagna, che in montagna ha costruito case, accoglie amici, ora gira film, ma «una volta in montagna ci passavo anche sei mesi l’anno, adesso un po’ meno. Ma amo Milano, è bellissima». E questa sua natura (mi perdoni ancora per la parola), cioè l’essere un uomo che conosce la montagna ma che in fondo ne resta sempre un po’ fuori, è ciò che fa diventare Fiore mio un film di tutti.

L’assunto è, diciamo così, d’attualità stretta: nell’estate secchissima del 2022, la baita di Cognetti, a Estoul, rimane per la prima volta senz’acqua. E allora lui si mette idealmente in viaggio con il suo cane Laki per capire cosa sta succedendo, per interrogare i ghiacciai e le persone che quelle valli hanno deciso, come lui, di abitarle, per qualche mese o per sempre. C’è la ragazza che viene dal mare e lo sherpa nepalese, e i local resistenti che la storia di quelle cime la leggi nelle loro mani.

E ci interroghiamo anche noi, facendo cortocircuitare quelle due domande gemelle e contrarie. La prima: e se mollassi tutto e andassi a vivere nella natura? La seconda: e se la natura a un certo punto deciderà di ribellarsi davvero a tutto questo? In un panorama (per restare in tema) in cui abbondando i documentari, e soprattutto i documentari a tesi, Cognetti di risposte non ne dà, perché «quello che deve fare l’arte è porre domande». Ma ci sono almeno un paio di frasi bellissime che ci lasceranno, a visione finita, ancora più in dubbio, in cortocircuito. Non ve le dirò, ma il succo è: forse la natura farà da sola quel che deve fare. La natura lo sa.

Paolo Cognetti con Vasco Brondi. Foto: Nexo Digital

Nel non dare risposte, Cognetti, da scrittore stavolta per immagini (fotografate da quel geniaccio belga che è Ruben Impens, lo stesso delle Otto montagne), ci dà anche pochissime parole. «All’inizio, proprio nelle primissime scene, avevo messo la mia voce off che leggeva un mio testo, ma poi stufava me per primo, e allora l’ho tolta e ho lasciato il silenzio», che è la vera risposta, forse addirittura la soluzione. E ha chiesto di togliere le parole anche a Vasco Brondi, amico di roccia e di musica che gli ha regalato un bellissimo commento sonoro fatto di rumori e di vuoti. E anche però una canzone, Ascoltare gli alberi, che dice delle “cose che non sono urgenti“, e anche dei “nostri destini, come potessi ancora cambiare tutti i tuoi piani“, perché ha ragione Cognetti, “la natura” di per sé non esiste, la natura siamo sempre noi.

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