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‘Frammenti di un percorso amoroso’, il film della vita che giriamo ogni giorno

Arriva in sala, dopo la calorosa accoglienza veneziana, il documentario di Chloé Barreau. Che riprende (letteralmente) i suoi ex per fare «la somma di tutti gli amori». Dandoci uno specchio in cui guardarci tutti

Foto: Groenlandia

Inutile negare, la maggior parte del nostro tempo lo passiamo a guardarci indietro, a ricordare ciò che è stato o ciò che sarebbe potuto, a immaginare la nostra vita se le molte “sliding doors” in cui ci siamo imbattuti si fossero aperte o chiuse in maniera differente. È un esercizio che si può fare con la memoria e la fantasia. Oppure, se si è stati abbastanza previdenti, attraverso le immagini che si sono raccolte in corso d’opera. Come ha fatto Chloé Barreau, filmmaker francese che da molti anni ha scelto Roma come seconda casa. Nel 2012 con La faute à mon père, il documentario su suo padre Jean-Claude Barreau, ex prete militante, grande intellettuale e storico francese e consigliere personale del presidente Mitterrand, vince un premio al Biografilm Festival. Da allora ha continuato a lavorare sul recupero del passato in forme diverse (il suo podcast Stardust Memories è un romantico spaccato della vita notturna romana dei primi anni 2000), sempre mettendo i sentimenti, i suoi soprattutto, in primo piano e sé stessa in gioco.

Frammenti di un percorso amoroso, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia all’interno delle Giornate degli Autori, è un documentario che racconta i passati amori di Chloé attraverso un repertorio da lei stessa girato nel corso degli anni e le parole dei diretti interessati. Ne viene fuori un romanzo epistolare con il fascino di una canzone di Charles Trenet, che anche allo spettatore fa domandare Que reste-t-il de nos amours? La risposta è: molto, tantissimo, comunque siano andate le cose. Tracce amorose si dipanano tra Parigi e Roma a cavallo di un paio di decenni, e raccontano mondi e culture diverse, vita da “expat” che diventa quasi apolide, perché l’amore può essere anche quello che ti porti dentro per una strada, un quartiere e una città.

Prodotto dalla Groenlandia di Matteo Rovere, con una supervisione di Giulia Steigerwalt, sceneggiatrice e regista di Settembre, una che di sentimenti quindi se ne intende, Frammenti di un percorso amoroso inizia il suo rapporto con il pubblico il 13 settembre, distribuito da I Wonder Pictures. Noi abbiamo fatto una chiacchierata con Chloé a Venezia.

Partiamo dalla domanda più semplice: perché?
Ho sempre documentato tutto, soprattutto la mia vita amorosa, perché è stata la mia attività principale, scoprendo che in realtà l’amore non è la priorità di tutti nella vita. Il mio modo di amare era quello di fotografare questa pulsione che inconsapevolmente accumulava materiale. Non c’era un’ambizione cinematografica, anche se ho sempre amato lavorare su repertori privati, hanno una densità di verità che mi emoziona. Quindi, avendo avuto una vita amorosa ricca e diversa, e avendone le tracce, ho pensato che sarebbe stato interessante farne qualcosa. Non un’autobiografia, ma un dispositivo un po’ provocatorio, chiedere agli ex la parte mancante del proprio racconto, pensando a come lo spettatore si sarebbe potuto identificare. Abbiamo tutti vissuto una passione, avuto dei rapporti ambigui, siamo tutti stati lasciati.

Che cosa hai imparato?
La motivazione non è stata terapeutica, però effettivamente, non avendo mai fatto analisi, è ovvio che riapri la tua di storia. Quindi ho scoperto delle cose, ne ho capite altre, difficili, dolorose, scomode, imbarazzanti. La persona si è sentita urtata, la regista invece diceva che figata, questa cosa sarà buona per il film, avremo un po’ di conflitto, un po’ di dramma, e quindi va bene così.

Da dove nasce l’ossessione per la memoria?
Non lo so, sono una persona molto nostalgica e malinconica. C’è questa frase che mi piace di Victor Hugo che dice che la malinconia è la felicità di essere tristi. Secondo me è una cosa molto bella. Comunque, forse è ereditaria, mio padre è uno storico, e poi, a rischio di risultare snob, sono una grande amante di Marcel Proust. La nostra vita, il tempo che passa, è un tema maggiore della dittatura del cinema. La memoria è il nostro bene più caro, anche chi è povero ha quella ricchezza, i suoi ricordi, tutte cose che sono nostre.

Non hai condotto le interviste, perché volevi che i tuoi passati amori parlassero di una persona che non fosse presente. Come hai fatto a convincerli a partecipare?
Ho scritto a tutti una lettera manoscritta, mandata via posta, mi divertiva che ricevessero una lettera, oggi che non si usa più. Ho proposto loro di partecipare, con la libertà di accettare o meno, di ricordare o no, e che non sarei stata presente durante le interviste. Non mi piacciono i registi che si mettono in scena, pensavo fosse importante lasciare spazio allo spettatore. E poi, quando racconti una storia a qualcuno che non la conosce sei costretto a fornire dati, tempi, luoghi. Questo mi ha permesso di avere un racconto classico, un romanzo di formazione in terza persona di un’educazione sentimentale. Sono stata fortunata, è un film benevolo, non un regolamento di conti. Non sono stati facili tutti da convincere, qualcuno aveva tante reticenze per vari motivi. Anne Berest, per esempio, che non mi parla da 25 anni, ha accettato perché è scrittrice, mi ha risposto con una mail brevissima dicendo che non si sentiva molto a suo agio ad affrontare questa storia, ma che in quanto scrittrice non ne poteva impedire la scrittura.

Qualcuno ha rifiutato?
Un ragazzo con cui non ci parlavamo più, sarebbe stato molto bello, ma non ha voluto partecipare. Però abbiamo recuperato l’amicizia. A dire il vero mi aspettavo sarebbe successo l’opposto, che avrebbe accettato, ma che non avrebbe poi mai più voluto parlarmi, quindi posso essere ugualmente contenta.

La regista Chloé Barreau. Foto: Lorenzo Pesce

Molte cose sono rimaste fuori, naturalmente.
È la frustrazione di fare un film di 90 minuti con 12 personaggi, ma con gli altri autori abbiamo voluto raccontare tutte le forme dell’amore, dalla storia importante allo scopamico. Però poi magari abbiamo fatto con alcuni interviste di due ore usando quattro minuti. Ogni tanto penso che magari sarebbe dovuta essere una serie. Ma ogni amore poi porta a un altro e volevo fosse un percorso, frammentario come la memoria.

C’è il tempo, ma c’è anche lo spazio, Parigi e Roma. Passare da un luogo a un altro ha influito sull’evoluzione dei tuoi amori?
Tantissimo. È un’esperienza fantastica che auguro a tutti. A Parigi risultavo troppo calorosa, affettuosa. Poi arrivi a Roma e ti trovano tutti antipatica, fredda, e ti accorgi di come la cultura ti percepisca diversamente. Roma per me è stata una liberazione, venivo da un ambiente quasi caricaturale, quello del Quartiere Latino parigino super intellettualoide, è anche una cosa bella di Parigi, così cliché, è così che si muove. Roma è la liberazione della caricatura che ero di me stessa, grazie alla scoperta di una città “di pancia”. E ci sono rimasta, sono romana d’adozione, questo è un mio amore fortissimo, quello per una città a cui sono molto riconoscente.

Come ti sei sentita quando hai visto per la prima volta le interviste?
È stato bellissimo. La sera stessa che le ricevevo mi chiudevo in camera e le guardavo da sola. Mi hanno fatto piangere, sono stata veramente riconoscente. Ho pensato che era un dono, incredibile, che mi hanno fatto. È stato rassicurante, perché mi riconoscevo nella persona di cui parlavano. E poi il fatto che abbiano accettato di leggere delle loro lettere: era una mia fissazione, sono laureata in letteratura con una tesi su Le relazioni pericolose, mi piaceva ci fosse un aspetto epistolare. Oggi le lettere non fanno più parte della nostra vita, ma mi posso innamorare di una calligrafia. Ho imparato tanto e ho fatto un bilancio. In fondo, siamo tutti la somma dei nostri amori. Ci fanno cambiare strada e non si smette mai veramente di amare. Magari ci si separa, ma vi amo ancora tutti.

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