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Francesco Nuti e veniva da lontano

Da un mondo, a metà tra Verdone e Troisi, incollocabile nel cinema italiano. Che l’aveva ucciso già trent’anni fa, incapace di comprendere un autore (e un uomo) che è sempre stato altrove. Fino a una morte da rockstar

Foto: Rino Petrosino/Mondadori Portfolio via Getty Images

A qualche ora dalla sua morte, è cominciata a girare una foto di Francesco Nuti in compagnia di Carlo Verdone e Massimo Troisi. Una triade della comicità italiana, salvo poi trasformarsi in qualcosa di diverso. Verdone è un sopravvissuto con un passato eccezionale, creatore di mille maschere di un Paese cialtrone, maestro nel raccontarlo per molti anni, salvo poi non averlo più capito, o forse non volendolo più, arrivato a un certo punto della sua vita artistica.

Di Troisi si festeggeranno i trent’anni dalla morte il 4 giugno del 2024. Già immagino l’apocalisse retorica da parte del cinema italiano sempre in cerca di qualcuno da commemorare per festeggiare sé stesso. Oggi, oltre a Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, il film che maggiormente dovrebbe essere rivisto di Massimo da San Giorgio a Cremano è Le vie del Signore sono finite, opera attualissima e sovversiva nell’Italia del Terzo Ventennio.

Di Francesco Nuti all’industria dell’italica celluloide non importava più niente da molto prima della sua uscita del mondo. Era un reietto, uno che si attaccava alla bottiglia, un depresso, uno pieno di sé, il solito arrogante toscano che pensa di essere un genio. Tutte cose che negli anni ho sentito con le mie orecchie dette da bocche di altri, molti dei quali dell’industria di cui sopra sono oggi, e non da ieri, ingranaggi insostituibili. Ma non è una novità, quando c’è qualcuno che non ama allinearsi si fa di tutto per assimilarlo o per liberarsene. Il cinema italiano è come L’invasione degli ultracorpi, prima o poi vengono tutti sostituiti da dei baccelloni. Nuti non ha mai accettato questo destino, ne ha avuto un altro e se n’è andato come una rockstar morendo lo stesso giorno di un cantante da crociere a cui ha rubato la scena.

Perché anche questa è stata una delle specialità di Francesco da Prato. Era impossibile restare in secondo piano, aveva una personalità strabordante che è stata la sua forza e la sua croce. Ma non si diventa grandi senza lasciare qualcosa per strada. E Nuti grande lo è stato, al livello dei due di cui sopra, di cui era in realtà una sintesi con in più un livello di surrealismo geniale che molto si avvicina alla scena milanese degli anni d’oro del Derby. La toscanità era una maschera regionale, come il romano di Verdone e il napoletano di Troisi, e con lui aveva molto in comune, soprattutto un romanticismo spesso doloroso. Ma più di loro Nuti ha raccontato personaggi che potevano venire e andare ovunque. Da lontano, come Willy Signori, il giornalista con il senso di colpa e l’istinto paterno; o di padre polacco come Caruso Pascoski lo “psic’analista” (lo scrive il carabiniere sul rapporto quando viene arrestato perché voleva un bacino dal maresciallo Novello Novelli).

Nuti è stato l’unico Casamonica a cui si poteva volere bene, si chiamava Romeo e dava tutta la colpa al Paradiso, dov’era andato pensando di tornare indietro con il figlio e invece scese a valle con un rimpianto. I suoi film parlano tutti d’amore, romantico e un po’ rétro, come i classici di Hollywood. Stregati, con la più bella Genova cinematografica del cinema italiano, è un oggetto strano, un Lelouch prima dell’alba con Ornella Muti icona sacra e profana. Non fu amato, non lo è tutt’ora, merita una revisione.

Ha flirtato tanto con il successo Francesco Nuti, sin dai tempi dei Giancattivi, ma si è sempre portato appresso un corvo che non lo ha abbandonato fino all’ultimo giorno della sua vita. Ci sono persone che ci nascono e ci muoiono così, non c’è niente da fare. Ha conosciuto picchi altissimi, già con i tre film con Maurizio Ponzi, e anche qui le cose fanno riflettere. Al sistema cinema italiano piaceva quando era un giovane comico che faceva botteghino per conto degli altri. Tra il 1983 e il 1986 sei candidature ai David di Donatello con due vittorie, come miglior attore per Io, Chiara e lo Scuro e Casablanca, Casablanca (per lo stesso personaggio, il giocatore di biliardo Francesco Piccioli detto Il Toscano, probabilmente un record per l’Oscar de noantri). Un Nastro d’argento nel 1983 e tre candidature complessive, l’ultima per Caruso Pascoski nel 1989. Un Ciak d’oro nel 1986 per Tutta colpa del Paradiso. Dopo: il nulla. E dire che un premio in questo Paese non si è mai negato a nessuno.

Francesco Nuti non piaceva al cinema italiano che con chirurgica precisione incominciò a punirlo mettendolo ai margini, facendolo sentire un provinciale che cercava di essere quello che non poteva. E se dall’esterno se ne fregava, a Francesco questa cosa lo consumava da dentro. Per questo doveva fare il suo Pinocchio, per dimostrare che dei fili lui non ne aveva mai avuto né voglia né bisogno. Lo schianto (OcchioPinocchio, 1994) fu fragoroso e ne goderono in tanti.

Francesco Nuti è morto per il cinema italiano un qualche giorno di trent’anni fa, su un caldo set estivo di un film fatto uscire rimontato secondo i voleri del figlio di un grande produttore. Ma in realtà lo stavano uccidendo lentamente da molto prima. La rivincita se la prende adesso che non c’è più, con tanti che si riempiranno la bocca nei prossimi mesi tra omaggi e premi alla memoria. Ci si chiede sempre che tipo di italiano rappresenti un attore dalle nostre parti. Francesco Nuti ha rappresentato un italiano che voleva essere diverso dagli altri. E ci è riuscito benissimo.

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