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Gli 8 film più sconvolgenti dell’anno

Dal capolavoro di Glazer ‘La zona d’interesse’ a tanti titoli ancora inediti da noi con protagonisti serial killer, donne-cavallo, pedofili di provincia e tanta altra orribile umanità

Foto: A24

Titoli perlopiù inediti da noi, visioni da festival che (speriamo) prima o poi arriveranno sui nostri schermi, opere certamente non adatte ai minori e a un pubblico troppo sensibile, controverse e sconcertanti. Siete pronti a veder turbato forse per sempre il vostro equilibrio psichico?

8

Beaten to Death

Sam Curtain

Partiamo dal più violento, Beaten to Death. Il titolo è da band metal gore hardcore, il film pure. Inizia come L’uomo senza passato, il bellissimo film di Aki Kaurismäki, ma continua in maniera molto meno gentile e poetica. Una quantità di botte e violenza indescrivibile, che Kill Bill può accompagnare solo, come direbbe un noto motociclista di internet: mai visto qualcuno di più menato di questo pover’uomo! Se siete fanatici di film violenti, non c’è niente di meglio che questo splatter/horror diretto da Sam Curtain. La trama è banalissima (come quella di tutti i suoi film), potete solo godere di un concentrato di ultra violenza, non degna di Arancia meccanica e senza latte +. Jack (Thomas Roach) e Rachel (Nicole Tudor) sono una coppia felice, ma causa bancarotta si trasferiscono in una campagna poco ospitale. Qui si imbattono in abitanti molto meno simpatici di quelli della cittadina di Dogville di Lars von Trier. La moglie viene subito ammazzata, lui vaga chiedendo aiuto e facendosi massacrare. Il tutto è girato molto bene, quindi se vi fate di questo genere come un tossico con l’oppio e il sangue vi rilassa o vi eccita, avete pane per i vostri denti. Dubito, ma se non vi basta potete guardare anche When the Evil Lurks, sempre del 2023, sempre un horror violento, ma questa volta sono protagoniste le possessioni, e non si risparmiano nemmeno bambini e animali in questo spettacolo scabroso, motivo per il quale non l’abbiamo nemmeno inserito nella lista.

7

Good Boy

Viljar Bøe

Proseguiamo con un film di medio-basso budget, il terzo di Viljar Bøe, che ha veramente dell’assurdo. La trama e la sua evoluzione sono altrettanto semplici: Sigrid (Katrine Lovise Øpstad Fredriksen) è una studentessa di 23 anni di famiglia media, fa qualche lavoretto per mantenersi e ha poche amiche. Una ragazza acqua e sapone senza segni troppo particolari. Un pomeriggio, grazie a una app per incontri, conosce Christian (Gard Løkke), un Mr. Gray di Wish difettoso ed economico. Il giovane è bello, introverso e sembra molto ricco; neanche il tempo di un caffè pomeridiano e subito invita a casa la ragazza, che senza pensarci nemmeno un secondo accetta la proposta. Arrivati nella lussuosa villa del giovane, i due cominciano ad accoppiarsi nel giro di dieci minuti. Dopo l’amplesso, Sigrid chiede: “Abiti da solo?”. Christian risponde: “No, con il mio cane, ma te lo farò vedere poi”. Poco più avanti, la ragazza torna a casa di lui e scopre che il suo amato animale domestico è un uomo adulto che si comporta come se fosse un cane, indossando un travestimento. Chiaramente continuerà a uscirci. Un horror atipico che parte benissimo, lavora in maniera incredibile con camera e fuochi facendo sembrare tutto fin troppo reale. L’iniziale atmosfera rassicurante scivola in una spirale di tensione sempre più cupa, verso il superamento di ciò che poteva essere considerata come una pratica consensuale fra i ragazzi, in direzione di uno scenario perverso e disturbante. Nella seconda metà tende a banalizzarsi e a rallentare il ritmo, ma rimane comunque curioso. È da vedere in compagnia di chi odia i film belli (sconosciuti di Tinder), possibilmente con qualche canna (potete fare l’amore dal minuto 46 in poi).

6

Piaffe

Ann Oren

Ecco un altro capolavoro del romanticismo (ovviamente si scherza). Un fantasy a dir poco delirante che parla di una donna-cavallo e un botanico che giocano a Cinquanta sfumature di grigio (ci risiamo…). Eva (Simone Bucio) sostituisce la sorella (che a causa di un esaurimento nervoso non può fare il suo lavoro) facendo la rumorista per uno spot pubblicitario con protagonista un cavallo. Comincia ad impazzire perché non riesce a realizzare questo compito impossibile, finché improvvisamente non inizia a crescerle una coda (è tutto vero). Lo sviluppo di questo tratto animalesco ha ripercussioni sulla sua personalità che, indovinate un po’, diventa addirittura più decisa e forte. Seduce un uomo (Sebastian Rudolph) che lavora in una serra, con cui innesca una relazione basata sulla sottomissione e sul sadomasochismo. Una trama che parla da sola, guarnita da puro weird. Una specie di Secretary ma con una cavalla, e fa più ridere di Bojack Horseman nonostante non sia un film comico. Da quando ho finito di vederlo mi sono messo alla ricerca di Ann Oren, la regista del film, perché non posso fare a meno di conoscerla.

5

La piedad

Eduardo Casanova

Al quinto posto cominciamo ad avere qualcosa che oltre allo scandalo porta con sé un concetto. Questo, come il prossimo della lista (anche se in maniera diversa), è un film super estetico, e a me personalmente tutta questa ricercatezza allunga-film/vendi-film mi sta un po’ annoiando. L’idea di base però è geniale. Eduardo Casanova, già regista di Pelle, ci racconta un rapporto disfunzionale tra madre e figlio, paragonandolo alla dittatura nella Corea del Nord. Esatto, avete sentito bene… Mateo (Manel Llunell Santander) si ammala di tumore al cervello e l’angosciante madre Libertad (Ángela Molina) comincia a non dargli tregua rimenendo attaccata a lui in maniera prepotente e mostrandogli tutta la sua pietà. Arriva addirittura ad assumere le sue sembianze rasandosi i capelli e facendo di tutto per prendersi la sua malattia. Questo rapporto malato amore-odio distrugge da dentro il rapporto, esattamente come succede dall’altra parte del mondo in Corea. La morale del film è che i vinti non riescono a stare troppo lontani dai vincitori e viceversa, che il padrone ha bisogno del suddito e viceversa, ma che quando il rapporto diventa troppo viscerale, tutto è distruttivo. Il microcosmo dell’essere genitore è messo in parallelo al macrocosmo dello Stato, a dimostrazione di come chi detiene il potere del nucleo famigliare o del Paese sia consapevole ma non si prenda la responsabilità dei grandi errori che sta facendo, vantando un amore per il prossimo che non è altro che amore per sé stessi. Il potere diventa quindi il cattivo e chi lo subisce diventa complice. Ottimo per i fan di questo genere, poteva essere qualcosa di grande ma risulta già visto a causa di alcune scelte stilistiche. Una buona alternativa meno scioccante ma perfetta dal punto di vista della realizzazione è May December di Todd Haynes, che uscirà in Italia il 21 marzo.
Tutto in La piedad risulta, forse anche volutamente, didascalico: un esempio è la scena della Pietà di Michelangelo, sicuramente al regista deve essere piaciuto La ricotta di Pasolini e quello sì che è un capolavoro indiscusso.

4

Divinity

Eddie Alcazar

Immaginate di essere in un trip paranoico dopo un tiro di freebase e dmt sciolte sullo stesso braciere, nella mente di Jodorowsky che un attimo prima stava colloquiando con Oscar, il protagonista di Enter the Void di Gaspar Noé. Questo deve aver pensato Eddie Alcazar in fase di stesura di questo “film”. Ecco la sinossi strafatta della medaglia di legno: uno scienziato pazzo e visionario (Scott Bakula) in un mondo distopico e dispotico (per quanto riguarda i canoni di bellezza) inventa una pozione che chiamerà Divinity, capace di rendere immortale chiunque ne fruisca; Jaxxon (Stephen Dorff) è il figlio immorale dell’inventore, e vuole controllare il mondo attraverso la produzione di questo elisir; due enigmatici fratelli (Moises Arias e Jason Genao) cercano redenzione e libertà in un mondo ormai controllato da questo desiderio, aiutati da Nikita (Karrueche Tran); il loro piano di rapire Jaxxon porterà a un trip fisico e filosofico. Sicuramente è qualcosa di davvero ipnotico, esteticamente derivativo, e non fa parte di un genere cinematografico preciso. È un violento e surreale esperimento concettuale, un’esperienza visiva strana e intensa che a volte cade nel trash ma comunque molto interessante da guardare per il concetto filosofico che ruota intorno all’immortalità e ai canoni che sono lo specchio del nostro Occidente.

3

Les chambres rouges

Pascal Plante

Apre il podio un lungometraggio malauguratamente snobbato da tutti. La storia che racconta forse non è sensazionale, al contrario però della regia e dell’interpretazione delle attrici. Ottimo ma senza il pepe necessario a farlo ricordare, è uno di quei titoli che gli amanti del cinema e delle novità devono vedere per forza. Due giovani donne, Kelly-Ann e Clementine (Juliette Geriépy e Laurie Babin), si svegliano ogni mattina alle porte del palazzo di giustizia di Montréal per poter assistere al processo ipermediatizzato di un serial killer (Maxwell McCabe-Lokosche) che le ossessiona: l’uomo ha filmato l’uccisione delle sue vittime, postandole nel dark web. Le due donne si appassionano così tanto al caso da confondere questo fervore per amore verso il depravato. Questa ossessione malata le porterà a tentare in tutti i modi di mettere le mani sull’ultimo filmino, che potrebbe consentire di confondere definitivamente le tracce che incastrerebbero colui che è stato soprannominato “il demone di Rosemont”: il video mancante di uno dei suoi omicidi. Un’opera che mette ansia dall’inizio alla fine, girata magistralmente da Pascal Plante. E anche una riflessione perturbante sull’introiezione degli eventi mediatici: è lì che queste vite vuote cercano uno scopo. Visione consigliatissima per una serata thriller, tiene con il fiato sospeso fino alla sconvolgente conclusione. Se volete scoprire le psicosi del figlio di un serial killer potete guardare anche Megalomaniac, un altro film del 2023 passato inosservato, più sul genere horror grottesco.

2

Sparta

Ulrich Seidl

Ulrich Seidl è un regista importante, che tratta temi importanti con uno stile documentaristico spietato che ti mette di fronte alla realtà delle cose, quella che amiamo definire “l’estetica dell’orrore”. Sparta è l’ultima delle sue opere e fa parte di un dittico con Rimini (da non confondersi col romanzo di Tondelli o lo stupendo brano di De André). Hanno in comune inizio e conclusione, lo sguardo di due fratelli su un padre che marcisce in una casa di riposo, un uomo cupo con un passato da nazista. Il legame di sangue non è l’unico parallelismo: i due scappano dalla loro routine per vivere una vita ai margini, lontana dai loro affetti. In Rimini il protagonista scappa dalla figlia, in Sparta invece dalla fidanzata. Ewald (Georg Friedrich) si rifugia dopo la fuga in una squallida e fredda cittadina rumena, consapevole della sua insanità mentale. Il conflitto interiore lo divora. Cerca di non badarci ristrutturando una vecchia casa e nel frattempo recluta bambini disagiati, con la scusa di aprire un’accademia di arti marziali che chiama appunto Sparta, insegnando a queste piccole reclute a difendersi dal mondo. Lo stile di regia è come al solito glaciale, freddo e lontano. Il film è pesantissimo, tratta il tema della pedofilia dal punto di vista di un pedofilo non offensivo, ma è un’altra grande pellicola di un regista che cerca di farci comprendere l’orrore della deviazione mentale senza mai cadere nel violento o nella banalità e che, per quanto difficile, cerca di sensibilizzare sull’argomento con uno stile affascinante e grigio come le debolezze del protagonista che lo rendono l’unica vittima di questa triste storia. Doloroso, parallelo e contrario a Salò o le 120 giornate di Sodoma, perché qui il carnefice è solo una vittima. “Il limite dell’amore è sempre
quello di aver bisogno di un complice.
Questo suo amico
sapeva però che la raffinatezza
del libertinaggio è quella di essere
allo stesso tempo carnefice e
vittima”, si sentiva dire proprio nel capolavoro di Pier Paolo Pasolini.

1

La zona d’interesse

Jonathan Glazer

Lettori e lettrici, se vi chiamate Massimo Ceccherini o Sabrina Ferilli probabilmente sarete gli unici che non hanno trovato tutti gli elementi che rendono questo film un capolavoro moderno della storia del cinema. Racconta con freddezza glaciale ed estetica magnetica la vita del comandante di Auschwitz Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig, che insieme si realizzano con una famiglia numerosa, una casa e un grande giardino, in un terreno direttamente adiacente al muro del campo. Quest’opera basa tutta la sua potenza sul non mostrato, sulla percezione costante di dolore e morte e la raffigurazione di famiglie, giardini, bambini, il tutto in questa bella villetta a due passi dall’inferno. Le dinamiche famigliari sono tra le più comuni, ma l’orrore è letteralmente dietro l’angolo, ed è questo rende la loro quotidianità straordinaria. Resti colpito dall’evidente superficialità del colpevole: per quanto gli atti siano i più mostruosi di tutti i tempi, coloro che li compiono risultano ordinari e mediocri. Un esempio chiarissimo è il discorso sulla funzionalità di produzione dei forni, letteralmente da brivido. Come le urla di disperazione, i cani e gli spari che si sentono mentre i bambini giocano nel praticello. Assolutamente da vedere, non a caso candidato a cinque premi Oscar e vincitore come miglior film internazionale. Un’atroce meraviglia.

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