“E dopo aver girato mezzo mondo col cuore in gola / Mettendo molte vite dentro una vita sola / Senza destinazione come un freak o come un matto / Sapendo che ogni passo ed ogni trick / È per onorare un patto che ho fatto”, canta Jovanotti in Montecristo, e cosa c’entra con Grand Tour (nelle sale dal 5 dicembre con Lucky Red), l’ultimo film di Miguel Gomes Premio per la regia all’ultimo Cannes?
Non c’entra, ma c’entra. Per piacere d’esplorazione, divagazione letteraria, per direzione, certo con prospettive diverse, ma onorando lo stesso patto. Però Grand Tour – e torniamo sulla coordinata portoghese, propria per nascita dell’autore – riguarda anche (o quantomeno nelle mie suggestioni di spettatore) un altro precedente, lo splendido Un film parlato di Manoel de Oliveira.
Un’altra opera che onorava il patto della libertà autorale e anche linguistica, quella libertà che il cinema che sta in Europa ma guarda l’Atlantico – dunque il viaggio, l’avventura, la caccia, la ricerca – sembra ribadire sempre. Si parlavano quattro lingue diverse, in quel film fra i capolavori ultimi del centenario di Porto. E si parlano tantissime lingue in questo Grand Tour letterario e letterale, che impasta i generi, i registri, gli stili narrativi ed estetici, e lo fa gloriosamente.
Anche il protagonista di questa storia deve onorare un patto. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario per conto dell’Impero britannico nella Rangoon d’inizio Novecento (ma parla in portoghese) deve sposare la fidanzata Molly (Crista Alfaiate). Quando però va ad accoglierla al porto, sotto un monsone e con un mazzo di gigli bianchi in mano, ci ripensa e scappa. E lì comincia il suo tour – culturale, esistenziale, spirituale – per il Sudest asiatico, che è anche il nostro attraverso il cinema di Gomes.
E poi ne comincia un altro. Quello di Molly, come in un Rashōmon versione Lonely Planet d’autore, in parte girato in un maestoso e mai autocompiaciuto bianco e nero (la fotografia è di Rui Poças, Gui Liange e del solito geniale Sayombhu Mukdeeprom), in parte nei colori del documentario antropologico, mischiando oltre alle lingue e agli stili anche i tempi, le mode, facendosi opera sincretica, meticcia, davvero globale. Mentre i diversi narratori ci raccontano la storia ora in indonesiano ora in cinese, squillano iPhone nell’Indochine coloniale e i nostri eroi di ieri si muovono nel traffico di oggi, si passa da Maugham (fra le ispirazioni dichiarate) e i resoconti alcolici di Lawrence Osborne (almeno son venuti in mente a me).
È un film parlato e viaggiato, Grand Tour, che segue le peregrinazioni dell’autore fra “i Paesi, i generi, i tempi, la realtà e l’immaginazione”, ma anche nella storia del suo stesso matrimonio, nella guerra tra i sessi (attraverso “stereotipi universali: la testardaggine delle donne che trionfa sulla codardia degli uomini”). E ovviamente nel cinema (le visibili ricostruzioni nei teatri di posa di Lisbona e Cinecittà, “le screwball comedies degli anni ’30”), e nella letteratura, perché quella è sempre la spina dorsale. Dopo il bellissimo Tabu, arrivato anche da noi ormai più di dieci anni fa, l’opera monstre di Gomes resta Le mille e una notte – Arabian Nights, il film-mondo in tre volumi (Inquieto, Desolato, Incantato) che partiva dai racconti di Shahrazād per mischiare, anche lì sincreticamente, la Storia reimmaginata di ieri con quella del Portogallo di oggi.
Pure Grand Tour e i suoi non-eroi sono inquieti, desolati, sempre incantati, alla ricerca di un posto nel mondo e soprattutto nel cinema, che se resta vivo è anche grazie a film come questo, che prendono e partono, all’avventura.