Se vi soffermate per qualche ora su un qualsiasi lembo di terra, potrete sentire secoli di Storia scorrere silenziosamente sotto i vostri piedi. Mettetevi all’angolo di una casa di periferia su un terreno che un tempo non era altro che terra brulla e che, tra diversi milioni di anni, sarà benedetto dal nome “New Jersey”, e sarete testimoni della vita in tutta la sua meraviglia, dolore e gloria. I dinosauri passano, le ere glaciali vanno e vengono, gli indigeni vanno a caccia di cibo. I ribelli combattono le giubbe rosse, Ben Franklin si lamenta del figlio politicamente arretrato e l’America ottiene l’indipendenza. L’uomo si alza in volo con quelle magnifiche macchine volanti, viene inventata la poltrona reclinabile e su una “radio con immagini” nell’angolo, quattro tizi dall’altra parte dell’Atlantico trasmettono l’Ed Sullivan Show. Le pandemie vanno e vengono. I matrimoni iniziano e finiscono. Tom Hanks indossa una maglietta sbiadita dei Doors e si sfoga con uno psicanalista.
L’idea di osservare da un unico punto di osservazione gli eoni dell’esistenza sulla verde Terra di Dio è stata alla base della straordinaria graphic novel del 2015 Here di Richard McGuire, che ha usato le sue tavole per far collassare il tempo e far sentire i lettori come se stessero osservando tutto ciò che è accaduto su quel terreno in una volta sola. Here di Robert Zemeckis, l’adattamento cinematografico (dal 9 gennaio nelle sale italiane, ndt) di questa pietra miliare del fumetto, utilizza la stessa idea per riunire i suoi compagni d’avventura (leggi: Forrest Gump) e ricordare che la generazione del baby boom ha avuto la sua parte di cultura pop cool e di disillusione tardiva. Il divario tra le descrizioni di queste due opere dice praticamente tutto quello che c’è da sapere sul motivo per cui questa versione cinematografica è decisamente inferiore. Sulla pagina, le limitazioni sembrano in qualche modo rivoluzionarie. Sullo schermo, il film in qualche modo riduce la stessa idea di un’unica angolazione/mille momenti diversi nella Storia a poco più di un bieco espediente.
Il che è probabilmente prevedibile quando l’attenzione si concentra non solo su una famiglia che occupa la casa costruita su quello spazio per decenni, ma su una coppia all’interno di quella stessa famiglia. Hanks è Richard, un ragazzo del dopoguerra diventato un “colletto bianco” che rinuncia al sogno di diventare un artista per provvedere alla sua famiglia. Robin Wright è Margaret, la sua fidanzata del liceo che diventerà sua moglie, la madre di suo figlio e la rappresentazione delle frustrazioni delle donne moderne nel periodo 1968-88. I due personaggi sono l’ancora di salvezza del film. Zemeckis e il suo sceneggiatore di Forrest Gump (e candidato al titolo di più grande sceneggiatore hollywoodiano contemporaneo) Eric Roth replicano la narrazione frammentaria e le transizioni tra le inquadrature del libro. Il pannello rettangolare verticale di un albero di Natale del 1957 può apparire nel mezzo di una scena ambientata nel 1917, o nel 1977, o nel 1697, collegando istantaneamente i punti temporali. Un secondo prima una Model T scivola davanti a una finestra che dà sulla strada, poi, un passaggio quasi invisibile dopo, una Chrysler LeBaron passa dalla parte opposta. Eccetera, eccetera.
E come nell’opera di McGuire, Here dissemina qua e là vari volti ricorrenti, che fungono da rapidi e facili riferimenti a qualsiasi anno in cui si ferma la ruota del tempo. Alcuni, come il duo Lenni-Lanape (Joel Oulette e Danni McCallum), sono appena abbozzati. Altri, come il cameo di uno dei padri fondatori del Paese, sono poco più che camei. Una coppia bohémienne degli anni ’40 (David Flynn e Ophelia Lovibond) esiste solo per creare una gag sull’invenzione della sedia a rotelle. Sbatti le palpebre e ti perderai Michelle Dockery nel ruolo di una moglie preoccupata per il marito pilota alla fine degli anni Dieci. Se poi si arriva al Covid-19, si rimpiange di non aver sbattuto le palpebre e di non averla vista. Siamo combattuti tra l’essere felici per l’inclusione di genitori neri (Nicholas Pinnock e la sempre grande Nikki Amuka-Bird) che conversano con il figlio adolescente su cosa fare se viene fermato da un agente di polizia, dal momento che allarga la portata del film e riconosce un quadro sociale più ampio al di fuori della composizione sempre statica, e il sentirsi in imbarazzo per la cattiva messa in scena di quella stessa sequenza. Ci sono molti più momenti di commozione in tutto il film di quanti se ne vogliano contare.
Ma questo non è mai stato concepito come un progetto corale, e il film sa chiaramente chi sono i suoi pezzi grossi: persino Paul Bettany e Kelly Reilly, che interpretano rispettivamente il padre veterano della Seconda guerra mondiale (nonché alcolizzato) e la madre sofferente del protagonista, diventano poco più che attori di contorno, nella storia della coppia più giovane. Si può sentire che Here si sforza di essere qualcosa di simile a una rivisitazione in chiave boomer di Scene da un matrimonio, tracciando le crepe del loro rapporto tra i programmi televisivi in continua evoluzione (The Honeymooners! I Beatles all’Ed Sullivan Show! CHiPs!) e il costante de-aging digitale a cui sottopone i protagonisti. Che la levigatezza dei volti della versione più giovane sia effettivamente fonte di distrazione non sorprende, ma il fatto che questo aspetto sia solo la seconda cosa peggiore di questo film è uno shock. Al primo posto c’è l’essere bloccati nella pubblicità di Zillow (una società immobiliare americana, ndt) più triste del mondo.
A un certo punto, un personaggio si guarda intorno tra le quattro mura che hanno ospitato molte generazioni di abitanti e dichiara che non c’è nessun altro posto in cui preferirebbe essere. Molto prima di pronunciare questa frase, però, lo spettatore desidererà silenziosamente di essere in qualsiasi altro posto che non sia “qui”.