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‘House of Gucci’ è una pecionata che stravince, ma non convince

Si può dire che il film di Ridley Scott starring Lady Gaga non funzioni? Certo che no. A metà tra ‘Dynasty’ (ma meno trash) e ‘Il padrino’ (ma ovviamente più cheap), intrattiene a dovere per quasi tre ore. L’importante è solo prenderlo per quello che (non) è

Foto: Eagle Pictures

Metto le mani avanti: è ovvio che House of Gucci vince facile, facilissimo, e non poteva essere altrimenti. È come andare alla festa aziendale indossando uno degli abiti disegnati da Alessandro Michele che hanno sfilato alla Love Parade di Los Angeles lo scorso 3 novembre: chiaro che vi si noterebbe subito, chiaro che non passereste inosservati, chiaro che chiunque bisbiglierebbe «Guarda un po’ tizio/tizia, aveva mica paura di sfigurare?». Equivarrebbe ad ammettere la vostra eleganza e raffinatezza? Be’, insomma, parliamone.

In altri termini: dopo tutto l’hype, dopo tutto il battage – le abbuffate di panzerotti in centro a Milano; le première; Patrizia Reggiani che s’offende; quel che resta della famiglia Gucci che s’indigna; Tom Ford che se ne ha a male; la dialogue coach che demolisce l’accento più russo che italiano di Lady Gaga –; dopo i trailer; dopo gli outfit; dopo i meme, le gif, Father, Son and House of Gucci eccetera eccetera, il nuovo film di Sir Ridley Scott è quello che in tanti sospettavamo sarebbe stato: una pecionata.

E lo scrivo con immenso affetto, non me ne vogliate: non mi sono mai annoiata durante i centossessanta minuti (centosessanta, sì: più che un film, è un sequestro di persona) durante i quali si dispiegano le vicissitudini della famiglia Gucci, in alcuni momenti mi sono anche parecchio divertita, molte delle gag sono stupendamente grottesche e surreali, però il risultato rimane un pasticcione a metà strada tra Dynasty e Il padrino. Con un grosso problema di fondo: l’essere troppo poco trash per potersi paragonare al primo ed eccessivamente cheap per reggere il confronto con il secondo.

Poi, c’è un’ulteriore aggravante che sottolineo da secchiona: il libro omonimo da cui House of Gucci è tratto, della giornalista Sara Gay Forden (in Italia lo pubblica Garzanti), è tutta un’altra storia, e non metaforicamente. Ridley Scott l’ha preso, (forse) l’ha letto, ha riunito un cast di tutto rispetto – oltre alla già citata Lady Gaga, anche Adam Driver, Jared Leto, Al Pacino, Salma Hayek, Jeremy Irons, Camille Cottin – e ha deciso di raccontare la sua versione alternativa dei fatti. Secondo la quale Patrizia Reggiani avrebbe avuto illuminanti intuizioni commerciali e di marketing che avrebbero consentito a Maurizio Gucci di intraprendere con successo la scalata al vertice dell’azienda di famiglia, trasformando un marchio polveroso in un business di successo ancora oggi ben lungi dal collassare. Ora, non per fare la parte della cattiva che rovina le favole ai bambini, però le cose non sono andate esattamente così.

Viene naturale pensare che dietro ci sia la volontà di creare una versione edulcorata in cui Reggiani è fatta passare per vittima (in)consapevole del patriarcato imperante (narrazione a prova di bomba, di ‘sti tempi), sbattuta fuori dallo chalet di Sankt Moritz ed estromessa dagli affari di casa Gucci più per capriccio e senza validi motivi, se non che il marito s’era stufato d’aver di fianco una buzzurra arricchita. La tapina allora – non è spoiler: è cronaca, per quanto romanzata –, in quanto ferita nell’orgoglio e nell’autostima (in realtà, in quanto pazza psicopatica), decide di commissionare l’omicidio del consorte chiedendo l’aiuto di una sedicente maga trafficona, che assolda due poveri diavoli per freddarlo davanti all’ufficio della sua nuova società. Apro una parentesi: nel film la scena è chiaramente e inspiegabilmente girata a Roma, come se noi milanesi non sapessimo che in via Palestro non ci sono fontane. Chiusa parentesi campanilista, torniamo a noi.

Il carrozzone di House of Gucci, insomma, interviste a Lady Gaga incluse, trasuda in un certo senso il desiderio di giustificare il gesto e il comportamento di Patrizia Reggiani, (ex) ragazza della bassa modenese a cui la madre sin dalla più tenera età aveva inculcato l’ossessione per il buon partito, per il buon matrimonio, per i soldi e la bella vita. Ridley Scott s’è preso la briga di tramutarla in una specie di predestinata, una donna «spinta al limite», che cercava soltanto «un modo per sopravvivere» – Lady Gaga dixit.

Al Pacino è Guccio Gucci. Foto: MGM/Eagle Pictures

Resta solo una domanda, che il pubblico in sala pare quasi costretto a porsi: a parti inverse – un Maurizio Gucci rancoroso che fa ammazzare l’ex moglie imprenditrice in ascesa, rea d’averlo piantato – il giochino avrebbe funzionato comunque? O in quel caso non ce ne sarebbe fregato un fico secco di comprendere, compatire e parzialmente assolvere, ché trattasi di uomo (bianco, etero, cis, privilegiato) brutto e cattivo, nonché di femminicidio?

Vale dunque la vecchia regola del “due pesi e due misure”? Ebbene sì, ecco cosa ci siamo meritati e cosa abbiamo ereditato: la storia d’un finto genio incompreso, oppresso da una famiglia di stronzi arrivisti, che non riesce ad accettare la fine d’un matrimonio e preferisce riprendersi tutto ciò che è suo a suon di pistolettate.

Oltre a un ultimo, grande interrogativo (rivolto a chi vedrà il film non doppiato): qual è il senso di far recitare gli interpreti con un accento italiano – manco fossero dei mafiosetti di Little Italy – alternando di tanto in tanto, a caso, intercalari come “Amore mio”, “Buon compleanno, principessa”, “Buongiorno” e “Buonasera”? Fosse quello di farci ridere, alzo le mani e dichiaro la mia resa, perché farci ridere è l’unica cosa che – gliene va dato atto – a House of Gucci riesce non bene. Di più.

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