Il 15 gennaio del 2015, l’Academy, già nel pieno di numerose critiche per la totale assenza nella rappresentazione della comunità afroamericana e LGBTQ, assegna le 20 nomination previste a soli attori bianchi. Quel momento, che vedrà la nascita del movimento #OscarsSoWhite ideato dall’avvocata April Reign, esperta di diversity & inclusion, segna un netto spartiacque nella rappresentazione cinematografica corrente, inducendo l’Academy ad interrogarsi sui requisiti di selezione, indicati dai 6mila membri votanti, di cui il 94% era composto da bianchi.
Come raccontato in The Hashtag That Changed the Oscars: An Oral History, il reportage di Reggie Hill per il New York Times, l’effetto che produsse la campagna #OscarsSoWhite fu simile allo scoppio del Big Bang, non solo perché ha dato il via alla nascita di nuovi movimenti sociali come #WhiteWashedOUT a tutela degli attori asiatici e Time’s Up per la parità di genere nell’industria cinematografica, ma perché ha anche posto l’attenzione dei media sul trattamento riservato a gruppi storicamente di minoranza da parte dell’industria.
Nel corso di questi ultimi sei anni, si è visto come le barriere costruite nel tempo abbiano iniziato a scricchiolare favorendo la diffusione di film come Black Panther e Scappa – Get Out, che hanno portato nel 2019 al record di vittorie per artisti afroamericani. Ma per la musica c’è stata la stessa evoluzione?
Fin dalla nascita della sezione “miglior colonna sonora”, l’Academy ha favorito l’evolversi del linguaggio romantico vicino a compositori di formazione europea, per la sua struttura musicale «accessibile ad ascoltatori non specificamente acculturati e privilegiando la narrazione tipica dello stile hollywoodiano, unificando la partitura con le esigenze drammatiche del film». Non è un caso, infatti, che negli ultimi cinque anni il compositore Alexandre Desplat, formatosi nella culla del romanticismo francese, abbia vinto per ben due volte.
Al contrario, il jazz, così come lo swing – entrambi standard dell’industria agli inizi del ‘900 – è sempre stato utilizzato sia per cavalcare le sonorità del momento, come avvenne nel 1920 durante il periodo storico definito dagli studiosi della popular music “The Jazz Era”, sia come rappresentazione della decadenza urbana rivelando, di conseguenza, pregiudizi ideologici su razza, genere e sessualità.
Negli ultimi due anni, si può dire che anche nel mondo delle soundtrack stia avvenendo una discreta rivoluzione che ha portato nel 2020 alla vittoria di Hildur Guðnadóttir, prima donna a portare a casa il premio nella categoria miglior colonna sonora (Joker), e che presenta quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Academy, due musicisti afroamericani candidati nella stessa categoria: Terence Blanchard (Da 5 Bloods – Come fratelli) e Jon Batiste (Soul), a cui si aggiunge H.E.R per la miglior canzone, Fight for You, composta per Judas and The Black Messiah.
Secondo Michael Abels, arrivato alla ribalta cinematografica grazie a Jordan Peele, che l’ha coinvolto sia in Scappa – Get Out che in Noi – Us, il risultato di questa evoluzione è data dal fatto che «c’è stata una svolta negli ultimi tre anni che ha smentito Hollywood, secondo cui la diversità non fa grandi incassi. La maggioranza delle persone ha finalmente capito che il razzismo sistemico è una cosa evidente, ne hanno visto le prove».
Negli 86 anni di storia della categoria, infatti, solamente in dieci occasioni furono nominati compositori afroamericani: per vedere il primo bisogna arrivare al 1961 con Duke Ellington per Paris Blues, a cui seguiranno Calvin Jackson (Voglio essere amata in un letto d’ottone, 1964), Quincy Jones (A sangue freddo, 1967), Isaac Hayes (Shaft il detective, 1971), Gil Askey (La signora del blues, 1972), ancora Quincy Jones (I’m Magic, 1978), di nuovo Jones con Andrae Crouch e Caiphus Semenya (Il colore viola, 1985), Herbie Hancock (Round Midnight – A mezzanotte circa, 1986), Jonas Gwangwa (Grido di libertà, 1987) e Terence Blanchard (BlacKkKlansman, 2018). Hancock rimane, al momento, l’unico compositore afroamericano ad aver vinto la statuetta. Se non si conta Prince, vincitore nel 1984 per Purple Rain nella categoria “Best Original Song Score”, che però fu poi ritirata.
Terence Blanchard, alla sua seconda candidatura, e Jon Batiste sono oggi la testimonianza di come il jazz sia da sempre uno strumento narrativo imprescindibile per un prodotto cinematografico. Non a caso le primordiali ensemble che accompagnavano le immagini in scena erano composte principalmente da jazzisti afroamericani, e furono il trampolino di lancio per molti di loro che cercavano di uscire dalla ghettizzazione sociale, come Louis Armstrong e Count Basie.
Entrambi originari di New Orleans, Blanchard e Batiste hanno ereditato la conoscenza delle forme primordiali del jazz, ribaltando e modificando il ritmo della città attraverso la loro musica. Dopo l’uragano Katrina, nel 2005, Blanchard ha ricostruito le fondamenta di New Orleans e Batiste ne ha continuato il percorso attraverso il suo nuovo album We Are, in cui sono stati coinvolti i musicisti dei Marching 100 della sua Alma Mater St. Augustine High School, fondata nel 1951 a sostegno e istruzione per i giovani afroamericani, e suo nonno, ex presidente della Louisiana Postal Workers Union, che nel 1968 guidò insieme a Martin Luther King la protesta a favore degli operatori sanitari di Memphis, costretti a lavorare in condizioni di abuso e razzismo.
Il loro rapporto con il mondo cinematografico, invece, appare molto differente. Terence Blanchard è la voce sonora di Spike Lee dall’esordio nel 1991 con Jungle Fever, e la sua musica viene definita dallo stesso regista la chiave principale per comprendere la sua filmografia tanto da considerarla come “another character“, un altro personaggio. Il compositore originario di New Orleans è stato il primo, dopo Herbie Hancock, a interfacciarsi con Hollywood nel XXI secolo, trovando inizialmente un ambiente ostile e non inclusivo per gli artisti afroamericani: «Quando ho iniziato a lavorare per la prima volta, c’erano certi tipi di film che mostravano ancora immagini stereotipate, e li ho rifiutati tutti. Ho detto: “Non sarò quel tizio, perché non sono stato mai quel tizio nella mia carriera di artista. Non ho bisogno di buttare via quell’identità solo per lavorare nel cinema”. E ho sofferto per questo». Le battaglie e le rinunce intraprese da Blanchard lo hanno portato, dopo 138 anni di storia dell’opera lirica, ad essere il primo compositore afroamericano a rappresentare alla Metropolitan Opera di New York la trasposizione musicata di Fire Shut Up in My Bones, basata sull’omonimo romanzo del giornalista Charles M. Blow.
Jon Batiste, d’altro canto, sembrerebbe il risultato perfetto di questa combinazione. Da anni Batiste è il direttore musicale del Late Show with Steven Colbert e il curatore artistico del National Jazz Museum di Harlem, dove, nel giugno dello scorso anno, ha organizzato per tre fine settimana consecutivi delle marce musicali a sostegno del movimento Black Lives Matter. Obiettivo: mostrare come il jazz, nella sua storia, abbia rappresentato uno strumento di protesta a sostegno della libertà individuale.
Proprio dal momento che per lui il jazz permette di comprendere l’animo umano in continua mutazione, Batiste non poteva che essere coinvolto in un film come Soul, che, oltre a mostrare come la bellezza di una vita sia alla base dell’esperienza spirituale, si basa su un concetto educativo e formativo, su che cosa il jazz abbia rappresentato nella storia della musica afroamericana.
Ma cosa li unisce dal punto di vista cinematografico? Secondo il critico musicale Nate Chinen in Playing Changes: Jazz for the New Century, stiamo assistendo a una nuova fase evolutiva, dove un’esplosione di nuove tecniche ed accenti sta rivoluzionando le sue forme compositive canoniche. Questa evoluzione è stata fondamentale per molti giovani cineasti che tramite il jazz stanno riportando sul grande schermo l’esperienza afroamericana, riconsegnandone la corretta raffigurazione culturale e sociale.
Fin dagli albori dell’età dell’oro di Hollywood, il jazz è stato espressione costante dei cambiamenti sonori e delle nuove tecniche di composizione che si sono avvicendate nello sviluppo della musica per il cinema. Le storie culturali, sociologiche e tecniche che ritroviamo nel jazz e nel cinema hanno percorso linee parallele, a volte intersecate, sin da quando entrambe sono emerse alla fine del XIX secolo.
Da 5 Bloods – Come fratelli e Soul raccontano avvenimenti che sono radicati nell’immaginario culturale afroamericano e la musica, come spiegato ampiamente da Giovanni Russonello sul New York Times, non è influenzata dalla visione filtrata dei bianchi, che in passato marginalizzavano i musicisti afroamericani non permettendogli di raccontare in prima persona la loro esperienza.
Altri titoli usciti alla fine del 2020 come Sylvie’s Love e Ma Rainey’s Black Bottom dimostrano che c’è stato un ritorno effettivo del jazz come standard musicale, e che per la prima volta nella storia dell’Academy questo verrà rappresentato effettivamente da compositori afroamericani, «dando a questi racconti e personaggi narrati una dimensionalità e una profondità che riflettono la musica stessa».