Nel suo Manhattan, Woody Allen, comodamente sdraiato sul suo divano, rilassato, si concentra e poi detta al registratore: «Perché vale la pena di vivere? È un’ottima domanda… Be’, ci sono certe cose per cui vale la pena di vivere… Per esempio, per me… Uff, io direi… Il vecchio Groucho Marx, per dirne una… E Joe DiMaggio… Il secondo movimento della Sinfonia Jupiter… Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues… Sì, i film svedesi, naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon Brando, Frank Sinatra… Quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne… I granchi da Sam Wu… Il viso di Tracy…».
Ecco, fra i “vale la pena” c’è Louis Armstrong (1901-1971), con tanto di indicazione precisa: il Potato Head Blues. Un pezzo che presenta una storia importante, di virtuosismo, di evoluzione e di invenzione musicale. Dici Armstrong e all’istante si compone un’istantanea. Il suo volto e il suo corpo, la sua voce, e quella del suo strumento. Si tratta di una popolarità che ha pochi uguali nel mondo dello spettacolo. Quando si dice jazz si dice Armstrong. Certo quel genere esisteva già, ma Louis coi suoi studi, le sue innovazioni, lo ha portato ad essere celebre in tutto il mondo.
Rispetto alla sua nascita possono valere le prime parole della sua autobiografia: «Quando mia madre e mio padre si sposarono lui aveva vent’anni, lei diciotto e io tre». Fu un’infanzia davvero complicata, quella di Louis, abbandonato dal padre quasi subito, affidato dalla madre a una sorella, poi alla nonna, a volte a uno zio. Tutto questo accadeva, guarda caso, in New Orleans, la città del jazz. Piccolissimo, era lui che cercava di procurare la sopravvivenza a sé stesso e alla madre, costretta a prostituirsi. New Orleans non era solo la casa del jazz, che allora si chiamava ragtime, ma era una città con una forte discriminazione razziale. E il ragazzo era proprio nel fondo della scala sociale. E non poteva mancare l’esperienza del riformatorio. Ma… era Armstrong, destinato a dimostrarlo. E quando gli domandavano di quegli anni così difficili, li descriveva così: «Ogni volta che chiudo gli occhi per soffiare nella mia tromba, guardo nel cuore della vecchia New Orleans… Mi ha dato qualcosa per cui vivere».
Fu nella banda musicale del conservatorio che imparò a suonare la cornetta, che gli permise di guadagnare i primi spiccioli. Si unì a un quartetto di ragazzi suoi “simili”, e con loro batteva la città suonando e cantando. E poi, ecco l’incontro del destino. Si chiamava Peter Davis, l’insegnante che divenne il suo mentore, che gli impartì lezioni di musica e anche di vita. Soprattutto, insegnò al giovane trombettista a leggere la musica. E non era scontato, perché la peculiarità dei jazzisti, anche di quelli famosi, era l’istinto, la ricerca nota per nota della frase musicale che nel jazz è disordine per natura. Un anno importante è il 1922, quando “Satchmo” si trasferì a Chicago, che era diventata meta di tanti musicisti americani, soprattutto jazzisti. E in quella città cominciò l’ascesa irresistibile dell’artista.
E così arriviamo al 1927, l’anno di Potato Head Blues, il pezzo che trasformò il genere e fece di Armstrong non un jazzista, ma il maestro massimo del genere. Durante la sua carriera ha suonato e cantato con molti cantanti e musicisti famosi, fra questi Bing Crosby, Duke Ellington, Frank Sinatra, Bessie Smith, soprattutto Ella Fitzgerald. “Storici” possono essere definiti certi loro duetti e certi album: Ella and Louis, Ella & Louis again, Porgy and Bess. Fra le centinaia di canzoni di Armstrong, molte fanno parte della colonna sonora del popolo che frequenta la musica. Alcune: What a Wonderful World, Stardust, When the Saints Go Marching In, Dream a Little Dream of Me, Hello, Dolly!
Louis Armstrong deve molta della sua popolarità al cinema. I registi se lo contendevano, perché il suo inserto portava qualità, e potenza. E così lo vediamo suonare con Paul Newman in Paris Blues, cantare con Bing Crosby in Alta società, farsi accompagnare da James Stewart nella Storia di Glenn Miller. Vincente Minnelli lo chiamò nel suo Due cuori in cielo, e Gene Kelly in Hello, Dolly! Woody Allen aveva ragione.