Vi sarà capitato di sentire che le elezioni presidenziali statunitensi sono alle porte. E, magari, che rischiano di essere le consultazioni più importanti della nostra vita. È una situazione che, nelle ultime settimane che precedono il 5 novembre, potrebbe indurre gli elettori a cercare ispirazione o a… fuggire. E allora, cosa c’è di meglio, in questo momento, di una classifica dei film sulla politica americana? Da tempo i registi affrontano il tema della storia delle origini degli Stati Uniti e di come il loro particolare modo di governare (“dal popolo, per il popolo”, o almeno così si legge) abbia contribuito a creare l’immagine idealistica dell’America che ai suoi cittadini è tanto cara. Ma, ben prima che il Watergate diventasse qualcosa più di un semplice hotel, i film hanno anche rivolto uno sguardo attento su come la democrazia americana sia un concetto ideale e troppo spesso manchevole nell’applicazione pratica. Ecco la nostra selezione delle 20 migliori pellicole che raccontano gli aspetti buoni, cattivi e pessimi della politica americana.
Bulworth – Il senatore
Warren Beatty
1998Come critica impietosa della “strategia della triangolazione” dell’era Clinton, molto legata alla pessima politica di quel periodo sui temi razziali, Bulworth è al contempo una satira esilarante e un sogno paranoico dall’inizio alla fine. Warren Beatty è co-sceneggiatore, regista e protagonista nel ruolo di Jay Bulworth, un senatore democratico corrotto della California che, ormai esaurito, stipula una polizza assicurativa sulla sua vita da 10 milioni di dollari (rendendone beneficiaria la figlia) e assolda un sicario per farsi uccidere nel giro di poco tempo. Poi, però, un giorno si ubriaca e, rappando goffamente, inizia a raccontare una serie di verità scomode sulla politica americana e sulla manipolazione della stessa da parte delle grandi aziende. A quel punto decide di continuare con le sue rivelazioni, ma deve lottare per rimanere in vita ed evitare che il sicario onori il contratto stipulato. Non è un film perfetto, ma ci va giù pesante. – Andrew Perez
Secret Honor
Robert Altman
1984Al debutto sul palcoscenico, questo spettacolo teatrale con protagonista unico aveva come sottotitolo The Last Testament of Richard M. Nixon. Nella versione cinematografica, diretta in modo graffiante da Robert Altman, il 37esimo presidente degli Stati Uniti si sfoga nel corso di un monologo di 90 minuti, pieno di parolacce e ambientato tutto nel suo studio, alla fine degli anni Settanta. Tricky Dick, caduto in disgrazia, trascorre una serata angosciosa lottando contro i demoni che si annidano nella sua testa, annegando nella rabbia, nell’autocommiserazione e nell’alcol. Philip Baker Hall era relativamente sconosciuto all’epoca, ma la scelta di casting è stata perfetta: fisicamente non somiglia molto a Nixon, ma ne restituisce al meglio il disprezzo al vetriolo e l’insicurezza cronica, mentre ogni sua parola è una replica senza mezzi termini a nemici invisibili che ormai l’hanno sconfitto da tempo. Secret Honor ci offre una versione romanzata di colui che è stato uno dei leader più disastrosi della nazione; inoltre questo drama claustrofobico e ridotto all’osso resiste alla tentazione di umanizzare un mostro. Piuttosto, concede a Nixon dignità a sufficienza per permettergli di restare impenitente fino alla fine, trasformando il suo ultimo, reiterato «Fanculo!» in un estremo grido di rabbia lanciato verso l’abisso. – Tim Grierson
I colori della vittoria
Mike Nichols
1998Chiunque ancora si dichiari nostalgico degli anni di Clinton farebbe bene a riguardare questo drama complesso e ricco di sfumature, con John Travolta nei panni di Jack Stanton, un governatore del Sud estremamente scorretto che si candida alla presidenza. Certo, lui è bello e affascinante, ma è anche terribilmente viscido e sembra avere problemi a restare fedele a sua moglie Susan (una frizzantissima Emma Thompson). Basato sul resoconto romanzato di Joe Klein della campagna presidenziale del 1992, I colori della vittoria è una capsula del tempo intrigante della politica di fine XX secolo: un’epoca ormai dimenticata, prima che George W. Bush, l’11 settembre, la guerra in Iraq e Donald Trump abbassassero di molto il livello e facessero sembrare le malefatte di Clinton, al confronto, relativamente lievi. Diretto da Mike Nichols e scritto dalla sua storica partner creativa Elaine May, questo film tagliente non si fa illusioni sui temi della falsità e del cinismo all’epoca di Clinton. Peccato che questi aspetti siano solo peggiorati, nella politica statunitense, da quando Bill ha terminato il suo mandato. – T.G.
Milk
Gus Van Sant
2008L’interpretazione di Sean Penn, premiata con l’Oscar e così perfetta da risultare inquietante, nel ruolo del protagonista Harvey Milk (la prima persona gay eletta a una carica pubblica in California, nel San Francisco Board of Supervisors), è il vero punto di forza del biopic di Gus Van Sant. Ma Milk è un’opera più profonda. L’ombra dell’omicidio del supervisore incombe su tutto il film, che si apre con la registrazione di un nastro da riprodurre in caso di morte: una tragedia che, come sappiamo, alla fine avverrà per mano del collega Dan White, interpretato da Josh Brolin con un tormento interiore a mala pena contenuto. Van Sant immortala i due poli della vita di Milk: l’euforia per l’elezione, frutto del suo carattere estremamente coinvolgente, e la paura che lo attanaglia non appena raggiunge il suo obiettivo. – Esther Zuckerman
Le ragazze della Casa Bianca
Andrew Fleming
1999Ai giornalisti piace Tutti gli uomini del Presidente: chi non vorrebbe trovare una storia che faccia a pezzi un presidente in carica? Le ragazze della Casa Bianca pone la domanda: “E se non fossero stati un reportage accurato e la caccia al flusso di denaro a portare alla luce lo scandalo Watergate, ma una storia molto più imbarazzante?”. Kirsten Dunst e Michelle Williams interpretano due adolescenti che si imbattono continuamente in attività illegali e sono le fonti principali di Bob Woodward e Carl Bernstein con lo pseudonimo di “Gola profonda”. È una grande parodia e un promemoria, per tutti coloro che lavorando nei media potrebbero averne bisogno, di non prendersi troppo sul serio. – A.P.
The Best Man
Franklin J. Schaffner
1964Gore Vidal qui ha adattato una sua opera teatrale in cui due candidati anche troppo umani si fanno strada, nelle file dei propri partiti, fino ad arrivare alla nomination alla presidenza. Henry Fonda interpreta William Russell, l’ex Segretario di Stato che spera che i suoi problemi mentali e coniugali non siano un ostacolo per ottenere il sostegno necessario. Cliff Robertson è Joe Cantwell, un senatore con l’abilità di trasformare i suoi sproloqui anticomunisti in una valida piattaforma populista (ogni riferimento a membri del Congresso realmente esistiti non è affatto casuale). Entrambi gli uomini sono in possesso di materiale compromettente sul passato dell’altro: in particolare, rapporti sul profilo psicologico di Russell e qualcuno disposto a confermare le voci di certe relazioni “indecenti” di Cantwell durante il servizio militare. La domanda subito diventa se sia etico o meno usare queste informazioni scabrose a proprio vantaggio. Pensate un po’: una volta, l’etica in politica esisteva davvero. – David Fear
Tutti gli uomini del re
Robert Rossen
1949Ispirato, e neppure troppo velatamente, alla vita e sulla carriera del governatore della Louisiana Huey Long, il libro di Robert Warren Penn è stato identificato da Hollywood come potenziale materiale da Oscar ancor prima che vincesse il Pulitzer. E il fatto che la bella versione cinematografica di Robert Rossen abbia finito per ottenere sette nomination all’Oscar e vincerne tre (tra cui quello per il miglior film) sostanzialmente gli ha assicurato un posto di prestigio nel panorama del political drama. Ma, anche al netto di tutti i riconoscimenti, questo film rimane un ottimo esempio di come tutto, dai rappresentanti delle lobby agli esperti in trucchi sporchi, fino all’apparato mediatico, possa concorrere al successo (o alla disfatta) di una figura politica. Il Willie Stark di Broderick Crawford, teatrale e meravigliosamente sopra le righe, ricorda ora ogni personaggio politico di spicco, non importa se del Sud o meno, che ha sfruttato il proprio status di “uomo del popolo” per ottenere benefici esclusivamente a proprio uso e consumo. – D.F.
Oltre il giardino
Hal Ashby
1979L’adattamento cinematografico di Hal Ashby del romanzo dello scrittore Jerzy Kosiński (su un uomo con problemi mentali, la cui ingenuità zen diventa una sorta di test di Rorschach morale per una società alla deriva, in preda a un autocompiacimento patinato) era una satira perfetta della fine degli anni Settanta. Interpretato da Peter Sellers che comunica con disinvoltura un senso di assenza sublime, il protagonista Chauncey Gardener passa dal vagabondare per le strade a frequentare nelle stanze del potere, diventando un professionista della politica solo sulla base del suo vago aspetto da WASP e della sua innata capacità di affascinare le persone (incluso il Presidente degli Stati Uniti) nonostante esprima, ed essenzialmente sia, un nulla cosmico. Cullando il pubblico con un umorismo velato, invece di afferrarlo per la gola, Oltre il giardino restituisce un inquietante senso di serenità per essere un film sulla politica, come se un’America fin troppo contenta di rinunciare a fare qualcosa e di attraversare cinicamente la storia osservasse serenamente il proprio riflesso su uno specchio d’acqua. – Jon Dolan
Tempesta su Washington
Otto Preminger
1962Quando il Segretario di Stato muore all’improvviso, il Presidente propone come sostituto il suo alleato, Robert Leffingwell. A interpretare questo potenziale nuovo membro dell’Amministrazione è nientemeno che Tom Joad in persona, alias Henry Fonda, e tutti pensano che lui dovrebbe rifiutare l’incarico. Ma Leffingwell si è fatto un gran numero di nemici nel Congresso nel corso degli anni e dice «non ho mai fatto ciò che mi veniva ordinato… nemmeno la cosa più piccola, per fare un favore politico!». A quel punto varie correnti del Senato iniziano a fare di tutto perché non ottenga la carica. Molti ricordano l’adattamento di Otto Preminger del bestseller di Allen Drury come uno dei primi film hollywoodiani a mostrare sullo schermo un gay bar. Ma il regista è anche riuscito a girare delle sequenze nel Campidoglio, una rarità che ha dato verosimiglianza a quella che è, in realtà, una versione all-star di Peyton Place. Anche all’inizio degli anni Sessanta, le pugnalate alle spalle e le risse bipartisan erano semplicemente ordinaria amministrazione. – D.F.
Election
Alexander Payne
1999Ad appena 13 anni da Una pazza giornata di vacanza, Matthew Broderick è tornato nel mondo spietato delle scuole superiori per Election di Alexander Payne. Questa volta è Jim McAllister, un insegnante di storia e di educazione civica che manipola una competizione elettorale tra un atleta stupidotto, Paul Metzler (Chris Klein), e l’ambiziosa Tracy Flick (Reese Witherspoon). Arriva a truccare le elezioni a favore di Metzler e finisce per distruggersi la vita. Payne vedeva il film come un microcosmo speculare della politica americana, ma non immaginava che avrebbe dato il via a 10mila articoli di opinionisti che paragonavano Hillary Clinton a Tracy Flick (spesso ingiustamente), o che le accuse di brogli elettorali presto sarebbero diventate un elemento standard della vita politica del XXI secolo. Se non avete visto il film di recente, guardatelo di nuovo. Flick non è la cattiva che molti di noi ricordano; è un’eroina imperfetta. McAllister, invece, è un mostro. – Andy Greene
Un volto nella folla
Elia Kazan
1957Sarebbe bello poter dire che questo film di Elia Kazan sul tema della demagogia populista è solo un ottimo ritratto dell’era maccartista, ma Un volto nella folla è ancora spaventosamente attuale a quasi 70 anni dall’uscita. Un Andy Griffith esordiente interpreta un vagabondo dell’Arkansas che canta, suona la chitarra e ha un fascino irresistibile. Viene scoperto dall’intraprendente agente interpretata da Patricia Neal, gli viene cambiato il nome in Lonesome Rhodes e viene catapultato sotto ai riflettori fino a ottenere una fama nazionale: prima come venditore di materassi e di una cura chiamata Vitajex, poi come conduttore televisivo che dispensa tirate patriottiche e, infine, come agitatore politico cripto-fascista, fino a giungere al suo orribile smascheramento. Di più grande della connessione naturale di Lonesome con la gente c’è solo il suo disprezzo per essa: «La pensano come me, ma sono più stupidi di me, quindi devo pensare per loro», proclama. La rappresentazione di questa ipocrisia da parte di Griffth (che passa dall’esuberanza del personaggio pubblico all’esaltazione folle del cattivo sempre più fuori di testa in cui si trasforma quando è dietro le quinte), è tanto preoccupante quanto affascinante, soprattutto se si è cresciuti vedendolo nei panni dello sceriffo televisivo gentile e rassicurante nelle repliche dell’Andy Griffith Show. Il risultato potrebbe essere il più grande monito mai portato sullo schermo per domandarsi: «Potrebbe mai succedere, in America?». Spoiler: Nel 2016 è accaduto. – J.D.
Bob Roberts
Tim Robbins
1992Questo mockumentary satirico sembra avere previsto sia l’ascesa politica di Donald Trump che il fenomeno della musica di Oliver Anthony. Tim Robbins ha scritto e diretto la pellicola, interpretandone anche il protagonista Bob Roberts, un ricco candidato al Senato della Pennsylvania che lancia messaggi di destra tramite canzoni folk. Roberts è un maestro della manipolazione, disposto a fare qualsiasi cosa pur di fare carriera. Vi suona familiare? Dopo la vittoria di Trump nel 2016, Robbins ha dichiarato che «Bob Roberts è diventato realtà». Non gli sono affatto piaciuti i paragoni tra il suo film e la realtà, dopo che un uomo ha sparato a Trump durante un comizio, ferendolo a un orecchio… ma quando hai girato un film come questo, pungente e che ha previsto il futuro, la gente se ne ricorda. – A.P.
Lincoln
Steven Spielberg
2012Comprimere e raccontare tutta la saga di Abraham Lincoln in un solo film non è nemmeno lontanamente possibile. È per questo che Steven Spielberg e lo sceneggiatore Tony Kushner, saggiamente, si sono concentrati sul gennaio 1865, quando Lincoln (interpretato da Daniel Day-Lewis) tenta di fare approvare il 13esimo emendamento dalla Camera dei Rappresentanti. È stato un momento decisivo, che avrebbe portato alla fine della schiavitù in America e ha costretto Honest Abe e i suoi a oliare un bel po’ di ruote e a giocare sporco. Il film è uno sguardo impietoso su come viene praticata la politica in America ed è veritiero oggi come 160 anni fa. Con tutto il rispetto per Henry Fonda, Daniel Day-Lewis è il più grande Lincoln della storia di Hollywood. – A.G.
Idiocracy
Mike Judge
1999Per qualche anno, dopo la sua uscita nel 2006, questo di Mike Judge è stato bollato come un film satirico esagerato, soprattutto per la parte in cui l’ex wrestler professionista decerebrato Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho diventa Presidente degli Stati Uniti. Si è poi rivelato uno dei film più profetici della storia di Hollywood quando Donald Trump, orgoglioso membro della WWE Hall of Fame, ha prestato lo stesso giuramento poco più di dieci anni dopo. «So che le cose vanno male in questo momento», dice il Presidente Camacho davanti al Congresso, a metà del film, «con tutte quelle stronzate sulla fame, le tempeste di sabbia e le patatine fritte e le tortillas per i burrito che scarseggiano. Ma io ho una soluzione». Siamo stati abbastanza fortunati perché non abbiamo terminato le patatine fritte e le tortillas durante il primo mandato di Trump. Ma una seconda volta potrebbe non andarci così bene. – A.G.
Sesso e potere
Barry Levinson
1997Un professionista della manipolazione mediatica (Robert De Niro) incarica un produttore hollywoodiano (Dustin Hoffman) di aiutarlo a innescare una crisi internazionale sufficientemente forte da distogliere l’opinione pubblica dalla notizia che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe abusato di una girl scout, nello Studio Ovale, a 11 giorni dalle elezioni. Un plot del genere è parso inverosimile all’uscita del film, nel dicembre 1997. Ma solo per un mesetto, cioè fino a quando non è scoppiato il caso di Bill Clinton che aveva avuto una relazione con una stagista della Casa Bianca (subito dopo, la sua Amministrazione ha bombardato un impianto farmaceutico in Sudan, attirandosi molte critiche per questo tentativo di distrarre dalla notizia). Lo Stanley Motss di Hoffman si butta a capofitto nella sua missione e uno dei suoi colpi di genio è ingaggiare una giovane ingenua (Kirsten Dunst) per interpretare la parte di una rifugiata che scappa dal suo villaggio in fiamme, con un sacchetto di Tostitos stretto in mano, davanti a un green screen (le patatine sarebbero poi state sostituite con un gattino, in postproduzione). Alla fine Motss viene distrutto, ovviamente, dal suo desiderio bruciante di ottenere un riconoscimento pubblico per il lavoro svolto nell’ingannare milioni di elettori e farli rivotare per il presidente in carica (a un certo punto si lamenta del fatto che non esista un Oscar per la produzione!). A distanza di decenni, questa cinica messinscena degli attori politici di Washington e delle masse credulone che influenzano conserva tutto il suo fascino, ma è anche più che mai attuale. – Tessa Stuart
Mr. Smith va a Washington
Frank Capra
1939Frank Capra ha girato spesso film su personaggi idealisti: «La maggior parte di quegli eroi aveva fiducia… fiducia nel bene e nella bontà innata degli esseri umani. Vivevano così e ci credevano». Il regista premio Oscar ha trovato il portavoce perfetto per tutto questo ottimismo in James Stewart nel ruolo Jefferson Smith, il prototipo del sognatore di provincia che diventa senatore degli Stati Uniti per scoprire poi, con sgomento, quanto siano corrotti i politici di Washington. Condannato all’uscita da alcuni per un presunto piglio antiamericano, questo classico patriottico rimane un’opera preveggente sui limiti dell’idealismo quando si affronta un sistema corrotto, in cui gli interessi economici e le élite cospirano per impedire il cambiamento che Smith propone. E chi è pronto a liquidare i drammi umani ritratti da Capra come roba sdolcinata, farebbe bene a notare quanto la convinzione e l’onestà di Smith vengono messe alla prova: un atteggiamento così retto risulta emozionante proprio perché viene sfidato duramente. – T.G.
Il candidato
Michael Richie
1972La politica è in grado di distruggere l’anima di una persona? Oggi sappiamo la risposta, ma quando questa pellicola satirica del regista Michael Richie è uscita, nel 1972, il tema era una novità. Robert Redford (come sempre in splendida forma) interpreta Bill McKay, un avvocato figlio di un ex governatore. L’astuto stratega esperto in campagne elettorali Marvin Lucas (Peter Boyle) vede in Bill il candidato perfetto per correre contro un senatore repubblicano in carica. È bello e genuino, proprio il tipo di persona che può scalzare un avversario ormai stanco e logorato. Man mano che la campagna elettorale procede, si può vedere la sua vitalità scivolare via e anche se McKay regge ancora bene la parte, alla fine tutto si riduce solo a questo: una recita. La preveggenza di questo sguardo lucido sulla direzione che stava prendendo la politica non è cosa da poco. Quando si pensava di potersi fidare delle persone in carica, Il candidato ha dimostrato che è tutta una montatura. – E.Z.
Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba
Stanley Kubrick
1964Originariamente, Stanley Kubrick aveva in mente di fare un’analisi molto seria della minaccia nucleare (se vi interessa l’argomento, consigliamo vivamente A prova di errore di Sidney Lumet, un film politico altrettanto valido uscito nello stesso anno). Invece, lui e lo sceneggiatore Terry Southern si sono concentrati sull’assurdità di un gioco tra Stati Uniti e Unione Sovietica che avrebbe portato alla distruzione reciproca assicurata, creando quella che potrebbe essere la black comedy per eccellenza. Come descrivere, altrimenti, un film che come colonna sonora della fine della nostra specie per autodistruzione utilizza un pezzo ironico e allegro come We’ll Meet Again? Tutti ricordano l’interpretazione bizzarra di Peter Sellers nei panni del personaggio del titolo, un ex scienziato nazista che snocciola statistiche di morte di massa, quando non è impegnato a lottare contro la sua mano meccanica. Ma a risaltare, ora, è la seconda delle sue tre parti, quella in cui interpreta il Presidente Merkin Muffley, leader di tendenza liberale (ispirato vagamente al candidato democratico Adlai Stevenson). Il suo dialogo con il presidente russo non fa che rafforzare l’idea che anche i capi di Stato più influenti si rivelano impotenti, nel momento in cui le lancette arrivano a segnare l’ora dell’Armageddon. E ne esce meglio dei suoi colleghi politici, dei burocrati stranieri e dei guerrafondai strampalati, che sono tutti veri e propri idioti o cretini meschini e rissosi, che creano l’occasione per una battuta perfetta: «Signori, non potete fare a botte in Centrale Operativa!» («Gentlemen, you can’t fight in here – this is a War Room!»). – D.F.
In the Loop
Armando Iannucci
2009Se la prima battuta di un film è «Morning, my little chicks and cocks», dovreste immediatamente capire come andranno le cose. La satira politica dissacrante di Armando Iannucci è molto più di una prova generale per il suo progetto successivo, Veep, anche se i due film condividono l’approccio in stile faux-vérité e gli insulti graffianti. In questo film, ambientato nel periodo che precede una possibile guerra che vede gli Stati Uniti e l’Inghilterra schierarsi contro un nemico sconosciuto, «ci sono pochissimi personaggi che si salvano», ha dichiarato Iannucci all’uscita. Ed è un eufemismo. Un alto funzionario del Dipartimento di Stato falsifica un documento ufficiale del governo, dei politici inglesi in visita discutono del fatto che hanno troppa paura di masturbarsi nella capitale della nazione e «ficcatelo in culo insieme al cazzo ben lubrificato di un cavallo» è un modo accettabile, se non addirittura raccomandato, di parlare ai propri colleghi. Anche se l’umorismo politico non fa per voi, sentire un addetto stampa scozzese definire l’opera «stranieri del cazzo che cantano e prendono sussidi!» (ed è solo uno dei tanti insulti lanciati a raffica) vale da solo la visione. Fanculo, ciao! – Jason Newman
Tutti gli uomini del Presidente
Alan J. Pakula
1976Questo film premio Oscar (un grande drama di ambientazione giornalistica, ma anche un thriller politico ancora migliore) ha trasformato la storia recente in un film avvincente e rassicurante sulla solidità delle istituzioni d’America. Chiunque abbia visto questo adattamento del libro firmato dai giornalisti Carl Bernstein e Bob Woodward conosceva perfettamente il finale (sapevamo già che quei reporter tenaci del Washington Post avrebbero collegato l’effrazione al Watergate a Richard Nixon, che si sarebbe quindi dimesso dalla carica di Presidente), eppure il film non potrebbe essere più coinvolgente. Forse perché il regista Alan J. Pakula e lo sceneggiatore William Goldman hanno immaginato la pellicola come un procedural ad alta tensione, in cui Dustin Hoffman e Robert Redford sono l’equivalente della coppia di amici-poliziotti brontoloni e anticonformisti che si danno da fare per trovare fonti disposte a parlare. Forse perché il cast era composto da una schiera di caratteristi incredibili, tra cui Jason Robards, che si è aggiudicato l’Oscar come miglior attore non protagonista per il ruolo del severissimo direttore del Post, Ben Bradlee. O forse perché tutte le persone coinvolte sono riuscite a bilanciare perfettamente il mix di patriottismo e professionalità rigorosa della storia, considerando lo scandalo Watergate come una crisi gravissima che metteva in discussione i principi stessi della democrazia statunitense. Quei campanelli d’allarme non sono diminuiti d’intensità nei quasi 50 anni trascorsi dall’uscita del film; anzi, i fattori di crisi sembrano ancora più pesanti e preoccupanti oggi di allora. Forse è per questo che molti di noi tornano a vedere Tutti gli uomini del Presidente: vogliamo ricordarci che, alla fine, la giustizia prevarrà e i cattivi saranno sconfitti. A volte, questa speranza è tutto quello che ci resta. – T.G.