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Dopo lo splendido esordio (pressoché invisibile in Italia) Estate 1993, la spagnola Carla Simón mette a segno un’opera seconda all’altezza, e forse anche migliore, della precedente. E con cui, difatti, si è meritata l’Orso d’oro alla Berlinale 2022. Il mondo (poco frequentato) dell’agricoltura è al centro di un film che celebra il secolo passato, e i suoi modi di vivere e lavorare, ma senza mai risultare “passatista”. Al centro c’è, prima di tutto, una storia di famiglia, generazioni, esseri umani. Che commuove, anche nel suo essere orgogliosamente militante.
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Un film poco “capito”? Forse sì. Fin da quando è stato proiettato all’ultima Mostra di Venezia (in versione però più lunga rispetto al cut poi arrivato su Netflix), quella che doveva essere la summa della poetica autorale ed esistenziale di Alejandro González Iñárritu è stata accolta con un po’ di nasi storti. È tutto troppo, è vero. Ma (anche) questo è il bello. La prima (favolosa) scena, cioè il neonato che “chiede” di rientrare nel ventre materno perché non ha voglia di venire al mondo, detta già il registro, sospeso tra il reale e il favolistico. Il resto lo fa il cast, artistico e tecnico, come sempre da vertigine: menzione alla fotografia del veterano Darius Khondji, dai virtuosismi incredibili.
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Una sceneggiatura perfetta basta a fare un ottimo film? In tempi in cui è sempre più difficile trovare grandi copioni, assolutamente sì. Santiago Mitre vuole raccontare la Storia di un Paese, ma anche una storia in cui coesistono dramma e leggerezza, giustizia e umanità. Un legal quasi-thriller, anche se sappiamo come va a finire la battaglia dei pm idealisti contro i militari che avevano preso il potere in Argentina, che appassiona ed emoziona. E che dà un altro passo all’intero genere, nonostante voglia essere un classico. E Ricardo Darín è uno dei più grandi attori in circolazione: punto.
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Arriva in corner il titolo che già sta facendo discutere la comunità cinéphile (o quel che ne resta). Capolavoro o sòla? Che piacciano o no questi musi blu, è indubbio che ci siano pochi autori mainstream al mondo con una visione (anche letteralmente parlando) come quella di James Cameron. Che, nel rinnovare l’universo (stavolta acquatico e forse ancora più incredibile) di Pandora, fa capire come si fanno i blockbuster, dopo anni di monopolio (o quasi) Marvel, nel bene e nel male. Bisserà il successo del precedente? Forse no, ma va bene così.
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Primo dei due del Toro in classifica è un altro film incompreso. Da gran parte della critica, e da tutto il pubblico: forse perché troppo cupo e senza speranza, dopo due anni di pandemia. La storia è quella del romanzo di William Lindsay Gresham, già diventato film nel 1947, per la regia di Edmund Goulding. L’imbonitore da fiera (Bradley Cooper al suo meglio) che si trasforma lentamente in una bestia è una delle parabole più feroci e simboliche viste sullo schermo di recente. Guillermone ci mette lo maggio al noir anni ’40, e il solito cast di comprimari stratosferici: Cate Blanchett, Toni Collette, Rooney Mara, Richard Jenkins e Willem Dafoe.
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Fiction? Documentario? Tutto, è molto di più. Osteggiato dal regime iraniano, che l’ha nuovamente arrestato lo scorso luglio, Jafar Panahi gira ormai i suoi film in clandestinità. E ha deciso di diventare negli ultimi anni (vedi anche i precedenti Taxi Teheran, 2015, e Tre volti, 2018) testimone “dall’interno” dei crimini politici e culturali del governo locale. Il protagonista di questo film è, come già era accaduto in passato, lo stesso Panahi, che si mette in gioco per scrivere un pamphlet lucidissimo e crudele, fino a un finale straziante. Premio della giuria a Venezia 79, a cui il regista non ha naturalmente potuto partecipare.
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Autrice sopraffina da sempre (Un castello in Italia, I villeggianti), Valeria Bruni Tedeschi si fa da parte solo per modo di dire. Non è più lei la protagonista della sua “autobiografia immaginaria”, ma solo perché è la sua versione più giovane: quella (incarnata dalla prodigiosa Nadia Tereszkiewicz) che si iscrive all’accademia di recitazione del Théâtre des Amandiers diretta da Patrice Chéreau e scopre – attraverso amori, passioni, fallimenti – come si diventa grandi. Il film è francese per produzione, ma Bruni Tedeschi resta la nostra autrice “globale” più vitale su piazza. Perché Forever Young è un inno alla vita, dalla prima all’ultima scena.
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Il film che in tanti (tutti?) si aspettavano da Spielberg. La sua storia di bambino che scopre il cinema, i Super 8, e che cambierà con la pellicola sua vita (e la nostra) per sempre. Ma The Fabelmans, ovvero il nome fittizio assegnato alla vera famiglia del regista, è prima di tutto una storia di famiglia, appunto. E dei segreti che il cinema riesce a mettere in luce (letteralmente) prima ancora che vengano realmente svelati. Il tono mischia lacrime e risate (la sceneggiatura è di Steven e l’ormai fedele collaboratore Tony Kushner), le interpretazioni da paura (mamma Michelle Williams, papà Paul Dano, zio Judd Hirsch) e il finale, semplicemente, da maestro.
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Anche qui, parecchi nasi storti: seriously? Pochi (nessuno) autori hanno saputo rinnovare un genere – nella fattispecie, l’horror – radicandolo nel battito sociopolitico corrente. E unendo la statura d’autore che sperimenta e si prende tutti i rischi senza rinunciare a intrattenere le platee, diciamo così, generaliste. Dagli orrori reali di Scappa – Get Out e Noi – Us, si passa agli oggetti non identificati: che però sono sempre le paure che scorrono nelle vene di una nazione. Il discorso sull’identità (e il riscatto) black, poi, qui si lega a quello “meta” sul cinema. Un colpo geniale, stop.
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Altro giro, altro del Toro. Chiunque, ammettiamolo, ha pensato: un altro Pinocchio? Basta (soprattutto dopo il bruttissimo live-action disneyano by il pur amatissimo Robert Zemeckis, che però non è arrivato a nessuno o quasi). Invece Guillermo, in collaborazione con Mark Gustafson, fa un’operazione à la Nightmare Before Christmas. Ma stavolta c’è, appunto, un libro che tutti conoscono, pure troppo. E allora che si fa? Si cambia tutto: il vero protagonista è il Grillo parlante (eccezionale Ewan McGregor), arriva il fascismo, scompare la fatina (c’è invece uno spirito azzurro “interpretato” da Tilda Swinton). Il risultato? Un capolavoro dell’animazione, e non solo.
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È il film che potrebbe (e, secondo la più parte della stampa USA, dovrebbe sfondare ai prossimi Oscar). Daniel Kwan e Daniel Scheinert, più noti come “The Daniels”, fanno una cosa che abbiamo già visto tantissime volte, ma “shakerando” (cit.) tutti i generi possibili per farci capire cosa può fare il cinema oggi, nell’epoca delle piattaforme e dei multiversi. E indovinano la scelta della protagonista: la superstar asiatica Michelle Yeoh che, come in questo film, è stata qualsiasi cosa sullo schermo, e che qui si riconferma attrice totale. Ma ci sono anche Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan, anche loro in odore di nomination (se non di statuetta).
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Un’opera pop-rock su Elvis è possibile? Sì, ma solo se la date in mano a Baz Luhrmann. L’unico così bigger than life da poter trattare “The Pelvis” come merita. Anche qui, tutto è shakerato: l’uomo e il mito, le hit di ieri e Toxic di Britney Spears, il fanatismo e la musica black, Las Vegas e l’America profonda. E, anche lui, azzecca il protagonista, che era l’impresa più ardua: il finora misconosciuto Austin Butler “è” Presley, insieme fragilissimo e cartoon, fighissimo ed eterno bambino. Il risultato è caotico, esagerato, pacchiano: e però bellissimo.
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Altro capolavoro d’animazione (e sempre “made in Netflix”), e altro film capito da pochi, anzi: quasi nessuno. Dopo Sorrentino, Branagh, Spielberg, Bruni Tedeschi e (ma dovete ancora aspettare qualche posizione) Paul Thomas Anderson, anche Richard Linklater torna alla sua infanzia/giovinezza. Ma il cartoon realizzato con la tecnica rotoscope già usata in passato (Waking Life e A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare) gli permette di elevare un “semplice” coming of age autobiografico ad avventura sci-fi. Ne esce un pezzo di “Americana” favoloso, pieno di dettagli che meritano più di una visione. Da recuperare assolutamente.
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Seconda Palma d’oro per Ruben Östlund, e secondo film che mette alla berlina i ricchi stronzi d’oggigiorno. Dopo il mercato dell’arte di The Square, ora tocca al mondo della moda e degli influencer. Ma non solo: nella crociera esclusiva che farà la stessa fine del Titanic ci sono anche trafficanti d’armi, businessmen non meglio identificati e altra umanità orrenda. Tra Lina Wertmüller e La tempesta di Shakespeare, emerge un affresco sociale lucidissimo, che di diverte a usare anche un registro quasi demenziale (o, diremmo noi italiani, da cinepanettone per spettatori d’essai: vedi la scena del vomito). E il finale è semplicemente perfetto.
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Un sequel di Top Gun, a distanza di quasi quarant’anni, faceva paura a tutti. E invece. Tom Cruise è un uomo di cinema “totale”, che cerca con le unghie e con i denti (letteralmente, visto che rifiuta l’auto degli stuntmen) di difendere un’idea di cinema che solo apparentemente non c’è più. Top Gun: Maverick conferma che un blockbuster vecchia maniera, fieramente artigianale, che mette insieme action, romance, amicizia virile e star-power (quello vero) è ancora possibile. Ma è così raro da realizzare oggi che uno su mille (Tom, appunto) ce la fa. Sequenze pirotecniche (la fotografia è di Claudio Miranda), momenti subito cult, commozione (il ritorno di Val Kilmer): è Hollywood, bellezza. E quanto ci mancava.
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Eccolo, l’ultimo “memoir” di questa annata. E il migliore di tutti. Paul Thomas Anderson è uno dei più grandi di questo secolo (e un pezzo del precedente). E anche l’unico capace di far diventare una storia piccolissima – la relazione “storta” e tenerissima tra un adolescente e una ragazza più grande (strepitosi Cooper Hoffman e Alana Haim) – un’epica che abbraccia persone (tutti i personaggi di contorno sono indimenticabili, a partire da Sean Penn e Bradley Cooper), luoghi (Los Angeles, e soprattutto la San Fernando Valley, che riesce ad essere ancora incredibilmente inedita) e Cinema. Con la maiuscola. Come questo film.