Il male non esiste
Ryûsuke Hamaguchi
Il regista giapponese premio Oscar per Drive My Car è tornato con un film – Gran premio della giuria a Venezia 80 – che è la storia di un villaggio rurale minacciato dalla costruzione di un glamping, un camping di lusso la cui realizzazione avrebbe ripercussioni pesantissime sui quei boschi e su quella comunità. Hamaguchi (qui la nostra intervista) celebra il Giappone più incontaminato minacciato dal capitalismo, mantenendo il suo inconfondibile mistero.
The Old Oak
Ken Loach
C’è una cosa che balza subito all’occhio in The Old Oak: l’assenza di latitudine. Ken il rosso va oltre e, nella storia di un gruppo di profughi siriani che trova rifugio dall’orrore della guerra in una cittadina inglese popolata da (ex) minatori, porta il suo sgomento e la sua indignazione a un livello superiore. Chiedendosi come sia possibile che una comunità abbandonata dal governo, distrutta dalla Thatcher e sconfitta dalla Storia non si riconosca o comunque non accolga chi, come loro, ha perso molto e in qualche caso tutto. Perché mai come questa volta tutto il mondo è paese.
Dogman
Luc Besson
C’è l’ombra di Joker in questo film cinefilo e ancor più cinofilo (sul set c’erano 115 cani), ma il più americano dei registi francesi ci regala una pellicola teneramente “fluida” senza il dovere di seguire le mode. Un cinema che si carica sulle spalle la brutalità di un mondo che non può realmente rappresentarlo. Dalla parte degli outsider, dei dropout, degli underdog. Con uno smisurato Caleb Landry Jones.
Holy Spider
Ali Abbasi
Nel tempo del dibattito sulla violenza contro le donne, il regista di Border Ali Abbasi gira un thriller chirurgico che, nella sua spietata freddezza, riesce ad andare ancora più al cuore della questione. Senza rinunciare all’elemento horror che lo contraddistingue, non calca incredibilmente mai la mano, e lascia che a parlare siano le azioni terribili di un uomo che odia le donne (e le uccide). Sullo sfondo l’Iran di oggi, luogo tristemente simbolo del patriarcato e delle sue storture.
L’innocente
Louis Garrel
Al quinto lungometraggio da (sottovalutatissimo) regista, Louis Garrel sfata la maledizione del nepo baby e confeziona un film irresistibile, che è al contempo un tributo ai polar classici e una commedia scatenata e attentissima ai caratteri in campo. Garrel è un regista molto più raffinato di quel che si crede e un attore generosissimo, capace di lasciare spazio a colleghi enormi come, in questo caso, Roschdy Zem, Noémie Merlant e Anouk Grinberg. Un vero bijou.
Il grande carro
Philippe Garrel
Di figlio in… padre. Philippe Garrel ha sempre fatto, pure consapevolmente, un cinema per pochi. Non fa eccezione questo film, dove, a 75 anni, il decano del cinema francese usa il suo clan per parlare (come sempre) di arte, vita, morte. Ci sono Louis, Léna, Esther. Pura autofiction, termine che Philippe giustamente non userebbe mai ma che ben descrive il suo cinema ieri e per sempre: storie della sua famiglia di sangue che s’accompagnano a quelle della famiglia di cinema, pezzi di vita reale che combaciano perfettamente con l’irrealtà di storie però sempre possibili, universali.
Pacifiction – Un mondo sommerso
Albert Serra
Un film-fiume a fortissima connotazione festivaliera. Il “duro e puro” Albert Serra, del resto, è per palati cinefilissimi, ma è indubbiamente un prodigio della regia e del racconto. Qui più che mai. Pacifiction, bellissimo film dal titolo, è un’opera sospesa tra l’intrigo coloniale, il cinema “di viaggio” à la Herzog e la videoarte. Benoît Magimel, forse mai usato così bene nella sua fase più matura, è immenso, così come luci, musiche, scenografia. Un anti-classico per il futuro.
El Conde
Pablo Larraín
Pinochet non è morto, ma è un vampiro di 250 anni che vive nascosto in una tenuta in rovina nella gelida estremità meridionale del Sudmerica. Pare lo spunto di un B-movie in stile Abraham Lincoln: Vampire Hunter e invece è il pazzissimo e sontuoso film per rimettere insieme i pezzi. Diceva Marx che la Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Ecco, Larraín ci ha scritto il film di cui non sapevamo di aver bisogno: tragico e grottesco insieme, cupo ma anche divertente, splatter e lirico. E così überallegorico da fare il giro ed essere drittissimo.
Leila e i suoi fratelli
Saeed Roustaee
Chi l’ha visto? Purtroppo quasi nessuno. Forse perché appartiene a un’epoca di cinema che non esiste più, o che arriva a un pubblico sempre più ristretto. Quella dei grandi film da festival (in questo caso Cannes 2022, che però l’ha lasciato senza premi nel palmarès: vergogna) che sanno raccontare l’anima del loro Paese. Qui c’è l’Iran schiacciato fra tradizione ed emancipazione, simbolicamente rappresentato dalla Leila del titolo, che sfida coraggiosamente le logiche famigliari e sociali. Un grande romanzo di quasi tre ore, che passano però in un lampo.
Animali selvatici
Cristian Mungiu
Dopo Ken Loach, un’altra riflessione sulla xenofobia di ritorno, questa volta in un paesino della Transilvania i cui residenti protestano contro un panificio locale “reo” di aver assunto tre dipendenti provenienti dallo Sri Lanka. In quel villaggio di frontiera, melting pot di etnie paradossalmente riluttante ad accogliere il diverso, Mungiu – Palma d’oro a Cannes nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni – racconta la morte della pietas, ma fa anche e soprattutto un’analisi acutissima della natura umana. Menzione speciale per il piano sequenza di 17 minuti.
Aftersun
Charlotte Wells
Una piccola meraviglia indie, una raccolta frammentata di ricordi e di momenti catturati durante un vacanza tra un giovane padre separato (interpretato magnificamente da Paul Mescal, qui la nostra intervista) e la figlia (Frankie Corio, anche lei perfetta) in un villaggio economy turco. Un’estate che vale una vita, nell’esordio insieme delicatissimo e durissimo di Charlotte Wells. Grazie MUBI per la distribuzione in Italia.
Passages
Ira Sachs
Un bravissimo – e piuttosto sottovalutato – regista americano (Ira Sachs), tre formidabili attori profondamente europei (Franz Rogowski, Ben Whishaw, Adèle Exarchopoulos) una storia che in teoria urlerebbe l’aggettivo “fluido” fin dalla prima scena ma che quell’aggettivo, con grande intelligenza, lo rifiuta altrettanto dal principio. È solo (tra molte virgolette) una storia di libertà: sentimentale, sociale, pure politica. Che racconta con spietata onestà i sentimenti di oggi. Anche questo su MUBI.
Trenque Lauquen
Laura Citarella
Inizia come L’avventura di Michelangelo Antonioni, con una donna che scompare, però nella pampa argentina. Poi diventa una cronaca quasi documentarista socio-etnografica, per poi virare al mystery. Il film di Laura Citarella, parte del collettivo El Pampero Cinema, è un oggetto non identificato nel panorama del cinema di oggi. Dura più di quattro ore, richiede molto impegno, ma ripaga con la sua grandissima libertà. I Cahiers du cinéma lo mettono al primo posto nella classifica di quest’anno: e in fondo è giusto anche così.
Un bel mattino
Mia Hansen-Løve
Specialista nel racconto delle cose solo apparentemente piccole della vita (vedi i precedenti Il padre dei miei figli, Un amore di gioventù, Le cose che verranno), Mia Hansen-Løve piazza un altro ritratto precisissimo. Quello di una giovane vedova (Léa Seydoux) che ritrova un vecchio amore (Melvil Poupaud) mentre la sua vita traballa e suo padre (Pascal Greggory) si ammala. Tutto qui? Sì. E per questo è bellissimo.
Un colpo di fortuna – Coup de chance
Woody Allen
È un giallo un po’ anni ’40. il nuovo Woody Allen (qui la nostra cover story), dove sono tutti ricchi, belli, bevono Margaux e mangiano foie gras e però ovviamente, sotto sotto (neanche troppo), tradiscono, mentono, addirittura ammazzano. È un Match Point volutamente in minore e in commedia, con i soliti crimini e i soliti misfatti, che procede diritto come un proverbio di Rohmer, col solito messaggio che il caso e la fortuna contano molto, anzi provocano tutto, e chi prova a piegarli finisce malamente. È la storia che sappiamo già, ma che non ci stanchiamo mai di farci raccontare.
TÁR
Todd Field
Come rendere un personaggio detestabilissimo una delle figure più interessanti raccontate dal cinema recente? L’antieroina scritta da Todd Field appositamente per Cate Blanchett (che avrebbe meritato l’Oscar e tutti i premi del mondo mondiale, altroché) è una direttrice d’orchestra così finta da sembrare vera. E anche il personaggio che mette in crisi anni di dibattito, tra MeToo e cancel culture. Un film seducente, che prende mille piste, per certi versi “sbagliato”, ma proprio per questo vitalissimo.
Asteroid City
Wes Anderson
C’è la mitologia del West paradossalmente filtrata attraverso un occhio europeo (Paris, Texas di Wim Wenders). C’è il colpo di scena sci-fi – sì, ma sempre “weirdissimo” e c’è l’omaggio di Wes Anderson allo storytelling americano, da Broadway al cinema anni ’50 (vedi la magnifica diva di Scarlett Johansson). Una storia nella storia, meta-teatro perfino. E, oltre la sempre deliziosa forma, Asteroid City è un film lieve sulla rielaborazione del dolore e della perdita, che sta tutto nello sguardo del fotoreporter di Jason Schwartzman. E in quelle ceneri dentro un tupperware.
Babylon
Damien Chazelle
Sì, il nostro è uno statement. Il film massacratissimo di Mr. La La Land merita un posto in questo listone perché è libero, se ne fotte delle regole e fa quel ca**o che vuole anche rispetto alla storia di Hollywood, tra vestiti e décor fuori tempo, musiche dissonanti (grazie sempre, Justin Hurwitz), interpretazioni anti-divistiche (favolosi Margot Robbie e Brad Pitt) e un tuffo nell’abisso di L.A. (splendida la sequenza psycho-notturna starring Tobey Maguire) come forse non l’avevamo mai visto. Quando sarete capaci anche solo di pensare un film così, ripassate a criticare.
Foglie al vento
Aki Kaurismäki
Una rom-com hipster sullo sfondo di una Finlandia immobile da decenni. Quelle di Holappa (Jussi Vatanen), operaio con un problema con l’alcol, e Ansa (Alma Pöysti, nominata ai Golden Globe come miglior attrice in una commedia o musical), commessa del supermercato che ormai si è un po’ arresa alla vita, sono due solitudini che (forse) si uniscono nella commedia umana, monosillabica e nostalgica di Aki Kaurismäki. Una love story proletaria e pacifista (in radio passano le notizie sulla guerra tra Russia e Ucraina) alla maniera del maestro finlandese dello humor impassibile e della malinconia. Uno dei colpi di fulmini di quest’anno.
Decision To Leave
Park Chan-wook
La via per il noir classico e insieme modernissimo non poteva che regalarcela Park Chan-wook, di nuovo dalla Corea con furore, darkness, la solita vendetta, e un tocco cinéphile che però non diventa mai di maniera. Un gioco di scatole cinesi che si rivela solo in uno dei finali più clamorosi delle ultime annate di cinema, affidato a un cast dove ogni ruolo apparentemente stereotipato (dal detective hard-boiled alla femme fatale piena di evidentissimi segreti) sa sempre diventare qualcos’altro. Magistrale.
Anatomia di una caduta
Justine Triet
È sempre stato un cinema di relazioni quello di Justine Triet, che però nei casi precedenti (Tutti gli uomini di Victoria e Sybil – Labirinti di donna, entrambi con Virginie Efira) non era mai stato così a fuoco. Anatomia di una caduta, Palma d’oro a Cannes 2023, è un’indagine su di noi (e sul cinema), un giallo sull’umanità e le ansie del nostro tempo. E insegna che c’è ancora posto per un modo di raccontare classico, tra i nobili gialli televisivi e Carrère.
Killers of The Flower Moon
Martin Scorsese
Il film più politico di Martin Scorsese? Probabilmente sì. La Storia degli Stati Uniti d’America “al contrario”, con i nativi che, in un certo momento, sono stati più ricchi dei bianchi, è già una partenza che ribalta. E nel finale (ma no spoiler, per chi lo vedrà su Apple TV+) Marty mette in scena letteralmente sé stesso, per dire quanto è dentro questa “nascita di una nazione”. In super sintesi: la Frontiera, l’avidità, il sangue, gli spiriti che osservano da lontano, impotenti. E DiCaprio, De Niro, la rivelazione Lily Gladstone. Incassi così così? Chi se ne importa, è un film che resterà.
Gli spiriti dell'isola
Martin McDonagh
Martin McDonagh riunisce il duo di In Bruges (Colin Farrell e Brendan Gleeson) per uno sguardo malinconico e magnifico alla fine di un’amicizia e all’inizio di una guerra. E firma un’opera semplicemente perfetta, un po’ commedia e un po’ tragedia, con una vibe antica. Un film più sommesso rispetto al solito mix di archetipi pulp fiction dell’autore, ma probabilmente il suo titolo più riuscito perché, pur nell’irriverenza di quel “feck” (leggi “fuck“) ripetuto all’infinito, c’è tantissima poesia. Farrell, premiato a Venezia 2022, guida un cast da spellarsi le mani.
As bestas – La terra della discordia
Rodrigo Sorogoyen
La società che – economicamente, politicamente, culturalmente – è in fiamme è l’ossatura del cinema di Sorogoyen, da Il regno alla serie Antidisturbios – Unità antisommossa (da noi su Disney+). In questo senso, As bestas è il suo capolavoro so far. Un film in cui tutti hanno torto e tutti hanno ragione, che fotografa un luogo preciso (la Galizia) e la sua comunità per raccontare contraddizioni universali. E senza perdere il gusto per il genere (in questo caso, il thriller) e un linguaggio orgogliosamente “largo”. Il film più bello della stagione, senza se e senza ma.
Barbenheimer
Greta Gerwig e Christopher Nolan
Come si compila una classifica dell’annus domini cinematografico 2023, aka quello del rinascimento della sala? Si può fingere che non sia esplosa una bomba atomica dalla nube rosa shocking? No, non si può. Lasciando da parte per un attimo le categorie (e le pippe) critiche, la posizione n. 1 non può che andare al fenomeno Barbenheimer. Messi insieme, Barbie e Oppenheimer sono il film più bello dell’anno, dove bello vuol dire anche vedere le sale di mezzo mondo tornate piene e il dibattito vivo. Ma – e qui gli strumenti critici servono – anche presi singolarmente quello di Greta Gerwig e il “rivale” by Nolan sono due film importanti, capaci di dialogare, ciascuno a suo modo, con il presente e con il pubblico, e di reinventare i rispettivi generi. E ci dispiace per chi non riesce a riconoscerlo.
Schede di Benedetta Bragadini e Mattia Carzaniga