Rolling Stone Italia

I migliori film italiani usciti nel 2024

‘Vermiglio’ che punta agli Oscar, ‘Parthenope’ che incanta e divide, opere prime che lasciano il segno (su tutte ‘Gloria!’ di Margherita Vicario) e il meraviglioso (e sottovalutato) ‘Il tempo che ci vuole’ di Francesca Comencini. Il nostro best of tricolore

Foto: ‘Il tempo che ci vuole’, Francesca Lucidi; ‘Parthenope’, Gianni Fiorito; ‘Vermiglio’, Lucky Red; ‘La déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta’, Bim Distribuzione; ’Enea’, Vision Distribution

12

Quell’estate con Irène

Carlo Sironi

Due ragazze. Un luogo in cui sono arrivate entrambe per curarsi. Un’estate. Carlo Sironi non perde il tocco che aveva già dimostrato nell’esordio Sole (senza contare i cortometraggi precedenti), ma cresce al pari delle protagoniste (Noée Abita e Maria Camilla Brandenburg: bravissime) di questo insolito e luminoso – nonostante il tema – coming of age. Un “piccolo” film che avrebbe meritato di più.

11

Vittoria

Alessandro Cassigoli, Casey Kauffman

Chiamatelo “cinema del reale”, “invenzione dal vero” (per dirla con Attilio Bertolucci) o come meglio credete. Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman (Butterfly, Californie) rimettono in scena l’esperienza vissuta da Jasmine – che vuole a tutti i costi una figlia femmina e decide di adottarla – e dalla sua famiglia, creando qualcosa di autentico e lontano dalle etichette. La potenza con cui Vittoria (prodotto da Nanni Moretti) arriva drittissimo non ha bisogno di definizioni, se non quella, semplicemente, di cinema. Menzione specialissima per il finale: avercene.

10

Berlinguer – La grande ambizione

Andrea Segre

Come raccontare una delle icone della politica italiana nel momento cruciale della sua parabola pubblica e privata? Andrea Segre non si esime dal mostrarsi “di parte”, ma privilegia lo studio, il rigore, la molteplicità dei punti di vista. Ovvero gli stessi tratti che caratterizzavano il più noto e amato segretario del PCI. Ne esce un film che non è un santino, ma un’interrogazione alla e sulla politica che vuole parlare soprattutto all’oggi. E difatti il pubblico (soprattutto giovane) ha risposto numeroso. E poi c’è la grande prova di Elio Germano, mimetico senza mimesi.

9

I dannati

Roberto Minervini

Uno degli autori più radicali, potenti e ormai irrinunciabili che abbiamo esportato. I suoi “documentari di creazione” precedenti (Stop the Pounding Heart, Louisiana, Che fare quando il mondo è in fiamme?) hanno mostrato che è diventato più americano degli americani. Adesso passa alla finzione (ma fino a un certo punto) e al Frontiera, ma continuando la sua ricerca che è sempre sul vero (e sull’umano). A Cannes avrebbe meritato il concorso, e anche la critica avrebbe dovuto concedergli di più.

8

Un altro ferragosto

Paolo Virzì

Si più replicare un cult generazionale, politico e anche più semplicemente cinematografico – per quanto ha saputo entrare nel canone della nostra commedia – come Ferie d’agosto? No. Ma non era neanche l’intenzione di Paolo Virzì. Che ritrova in scrittura Francesco Bruni e firma un’operazione che sta alla larga della pura nostalgia. Il tono vira verso il grottesco, ma il campione di “tipi” umani in scena, vecchi e nuovi, è ancorato alla realtà. E continua ad anticipare i nuovi mostri che governano il nostro Paese e le nostre vite. Cast come sempre incredibile.

7

Another End

Piero Messina

Un soggetto che ha vinto il Solinas dieci anni fa. Un regista che aveva fatto un solo (bel) lungometraggio, cioè L’attesa, anche lui dieci anni fa. Una storia – e una produzione – con l’ambizione di andare oltre confine, sia per scelte di cast (Gael García Bernal, Bérénice Bejo, Renate Reinsve) che per sguardo, che punta verso distopie in realtà vicinissime a noi e alle nostre paure più quotidiane. Un altro film rimasto incompreso da certa critica e, fatalmente, senza pubblico. Speriamo avrà una second life, come quella – impossibile – dei suoi struggenti personaggi.

6

Enea

Pietro Castellitto

Pietro Castellitto è ambizioso, presuntuoso, spesso esoso. Ma è questa anche la cifra che rende il suo cinema un corpo vivo, interessante, sempre discusso. A Venezia, dove aveva già vinto nel 2020 nella sezione Orizzonti con l’opera prima I predatori, qualcuno ha storto il naso, quando ha visto che Enea era in concorso. E invece, pur nei difetti, non era affatto fuori posto. Questo affresco dal Vietnam di Roma Nord (cit. dall’autore) alza l’asticella rispetto al precedente, e continua a indicare il segno pressoché unico di una voce di regia e scrittura che cresce. E può solo crescere ancora.

5

Le déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta

Gianluca Jodice

Abbiamo detto “film che meritavano di più”? Eccone un altro. Pensato, scritto (con Filippo Gravino) e girato da un altro autore che guarda “fuori”. Dopo Il cattivo poeta, Gianluca Jodice fa un salto spericolato nella Storia di Francia. E sceglie di raccontare la complessità di un passaggio (quello dall’Ancien Régime alla Rivoluzione che avrebbe cambiato tutto: non per forza nel bene) in un periodo storico (il nostro) in cui la complessità fa paura. E anche per questo qualcuno gli ha dato (stupidamente) del monarchico. Viva il cinema adulto, che non cavalca i trend. E visivamente bellissimo.

4

Vermiglio

Maura Delpero

Già dopo la prima proiezione alla Mostra di Venezia si era capito che l’opera seconda (di finzione: c’è un passato da documentarista alle spalle) di Maura Delpero sarebbe stato “il” film. Cioè il titolo italiano che avrebbe stregato il pubblico internazionale. Per sensibilità, attenzione ai dettagli, senso del cinema “come una volta” (in molti ci hanno visto, giustamente, la lezione di Ermanno Olmi: ma con un tocco lieve e contemporaneo) ma con l’occhio all’oggi (e alle donne di oggi). E perché finalmente piazza sulla piazza (pardon) un’autrice rimasta finora troppo in disparte. Ora aspettiamo la cinquina degli Oscar: fingers crossed.

3

Gloria!

Margherita Vicario

Un musical. Ambientato nel ’700. Con un cast coraggiosissimo. Sulla carta, poteva andare malissimo, soprattutto considerato che era un’opera prima. È andata invece benissimo. Dall’ultima Berlinale a oggi, non si è ancora fermato il viaggio dell’esordio di Margherita Vicario, che può essere visto come un (solo apparentemente semplice) feelgood movie al femminile ma che in realtà è fatto di tantissimi livelli, dalle intuizioni della partitura musicale alla maturità della messa in scena. E il discorso sul (non) ruolo delle donne nell’arte, ieri come – purtroppo – spesso ancora oggi, è fatto senza proclami, ma arriva come un pugno forte ma sempre gioioso. È nata un’autrice, punto.

2

Parthenope

Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino si ama o si odia. E soprattutto abbiamo visto che Parthenope si ama o si odia. Ma sono l’autore e il film che hanno portato un sacco di gente nelle sale, anche più che per La grande bellezza (nonostante l’Oscar). Un po’ perché il suo cinema (e lui stesso) è diventato un brand, e la campagna promozionale di quest’ultimo titolo l’ha, autoironicamente, dimostrato. Un po’ perché quella che ti porta a fare il regista napoletano è un’esperienza filmica che incanta, irrita, esalta, allontana, commuove. Noi siamo tra gli estimatori: la “Celeste (Dalla Porta) nostalgia” di questa storia è in realtà un salto non nel passato ma nel futuro; che ne resti tanto o poco, è sempre tempo di abbracciare la vita. E se prima era stata la mano di Dio, ora è quella dello stesso Sorrentino a comporre una delle sue opere più personali e struggenti.

1

Il tempo che ci vuole

Francesca Comencini

E parlando di opere personali e struggenti – e, aridaje, di titoli che avrebbero meritato di più in questa stagione (a cominciare dal concorso veneziano) – il film del cuore è il capolavoro di Francesca Comencini. Che parte dalla sua storia anche buia (l’adolescenza segnata dalla tossicodipendenza) e dal rapporto con il padre (serve dire chi è?) per scrivere e dirigere una celebrazione del fallimento, della fragilità, dell’aiutarsi gli uni con gli altri. E anche del potere salvifico del cinema. “Prima la vita, poi il cinema” è la battuta più bella dell’anno, ma anche il mantra che ciascuno dovrebbe tenere a mente (sostituendo “cinema” con ciò che crede: ci siamo capiti). Un’opera libera e liberatoria, punk, metafisica, visivamente piena di invenzioni, e capace di rimettere il femminile davvero al centro. E Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, padre e figlia di questa storia privata e universale, sono due giganti.

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