Il finale di ‘The Bad Guy 2’ e il buon proposito di un 2025 da spettatori adulti | Rolling Stone Italia
Il tempo che ci vuole

Il finale di ‘The Bad Guy 2’ e il buon proposito di un 2025 da spettatori adulti

La serie più figa (e non abbastanza vista) d’Italia insegna che dobbiamo abbracciare la complessità, anche se a tutti fa così paura. Ma non è l’unico caso che ci fa sperare per il cinema dell’anno che verrà

Il finale di ‘The Bad Guy 2’ e il buon proposito di un 2025 da spettatori adulti

Luigi Lo Cascio nel finale di ‘The Bad Guy 2’

Foto: Prime Video

La faccia insanguinata di Luigi Lo Cascio nel finale di The Bad Guy 2 (non è uno spoiler, o meglio: per capire cosa succede alla fine della serie italiana più figa che c’è, dovete arrivarci – e farlo da soli) è il mio buon proposito per il 2025. Non voglio un anno di botte e ammazzamenti, ne abbiamo già abbastanza. Né augurare del male al povero, bravissimo Lo Cascio. Voglio un anno di cose un po’ più complesse, se possibile, e questa fine di 2024 ci indica, forse, che la direzione è quella. Poi lo so che lo diciamo sempre e non succede mai, anzi regrediamo di anno in anno, però.

Però The Bad Guy è una di quelle serie di fronte a cui devi stare attento. Se ti distrai un attimo per scrollare il telefono (non vorrai mica perderti quel video di noodles a forma di anatroccolo!), devi tornare indietro per capire che è successo. Se salti una scena ti crolla il castello di carte, se ti perdi le battute godi solo a metà. E difatti, disgraziatamente, non è che in giro si senta parlare troppo di The Bad Guy. Perché per il pubblico di oggi è un oggetto forse troppo difficile, perché non è mica Inganno che capisci tutto anche se – come hanno fatto tanti amici miei – vedi solo la prima e l’ultima puntata: due ore scarse invece di sei, così non ti senti escluso alle cene dove tutti ne parlano ma recuperi quattro ore di vita.

Che poi io non ce l’ho con Inganno, che fa mille giri e alla fine, per mille altre ragioni, va benissimo così: con la scusa che “è lavoro”, io me lo sono sciroppato tutto e ne avrei voluto pure di più. Ma, in un mondo di Inganni, siate Bad Guy. O almeno provateci, proviamoci. Anche se nessuno vuole essere più trattato da adulto, cerchiamo di andare in quella direzione lì. A tornare al first screen.

Mi dicono, gli amici sceneggiatori, che oggi tutti vogliono prodotti (scusate) second screen (scusate/2). Cioè quelle cose che puoi seguire con l’occhio sinistro ma capisci comunque tutto, e intanto il tuo primo schermo sono le chat di WhatsApp, i reel di Instagram, i video di TikTok. O anche solo l’oblò della lavatrice. È quello che succedeva con le soap di una volta e, nonostante la modernità che ci hanno venduto prima la Prestige Tv e le piattaforme poi, siamo tornati lì, o forse da lì non ci siamo mai schiodati.

Anche il cinema non è più first screen, non per tutti almeno. Ogni volta che vado in sala, soprattutto per recuperare certi titoli più pop, è più la gente che va a viene dal cesso, o che esce per comprare i popcorn, o mandare un vocale, o chissà cos’altro (forse – speriamo – per pomiciare in bagno, visto che in sala i fidanzati non lo fanno più: guardano i rispettivi social) di quella che resta seduta sulla poltrona. Forse è un discorso da matusa, forse sono i cicli della storia che sempre si ripetono, ed eccoci di nuovo agli anni Cinquanta quando il cinema era una piazza, e anche lì si entrava e usciva, si perdeva l’inizio del film e chi se ne frega, e si fumava, si litigava, ci s’innamorava.

Però – e torno al buon proposito dell’inizio – si vedono anche accadere cose strane, persino al cinema. Parthenope, film per me sommamente bello e per molti una ciofeca (mi dispiace per voi), è andato pure meglio della Grande bellezza, e voi direte sì, ma Sorrentino stavolta era ovunque, e rispetto a dieci anni fa ora è un brand, e col suo cinema fa sentire colti i tamarri e ancora più colti i colti, che possono appunto dire “per me Parthenope è una cagata pazzesca” (mi dispiace per voi/2). Intanto il suo film fa tantissimi soldi, consacra un regista come divo della sua stessa opera (cosa che nel 2024 suona piuttosto incredibile), e genera una coolness che, in tempi di così scarso se non nullo interesse verso il cinema, male non fa.

La complessità non usa più, dicevamo con Gianluca Jodice parlando del suo notevole Le déluge, film che avrebbe meritato di più come tantissimi quest’anno. Su tutti il magnifico Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini. È un film su un padre e una figlia (che poi sono la regista e suo padre Luigi, ma potrebbero essere anche tanti padri e tante figlie) raccontato in chiave quasi metafisica, astratta, in scena ci sono praticamente solo loro e nessun altro, e in ambienti che sono evidentemente nudi, un letto e una sedia spesso bastano a indicare che sono a casa. La regista di questa scelta così radicale parla sempre, la spiega, e poi arriva puntualmente il tizio o la tizia a chiedere: “Ma perché in quella casa ci sono solo un letto e una sedia?”. E parliamo di un pubblico già non mainstream, che ha scelto, che dovrebbe sapere.

Ma del resto, oggi tutto sembra complesso. La gente si agita per il finale di Diamanti, un bel filmone popolare, nell’accezione che Özpetek ha sempre dato al suo cinema, che racconta le storie – semplici, quotidiane – di tante donne, e che piace a tutti, e che sta facendo grandi incassi natalizi, e che comunque per alcuni resta troppo criptico: ma chi è il personaggio di Elena Sofia Ricci? E perché nella prima scena aveva il collarino? E cos’è quella casa vuota alla fine? (Aridaje: evidentemente il pubblico italiano ha un problema con le case vuote).

Però poi, nell’anno che sta per finire, è successo La zona d’interesse. È successo Perfect Days, è successo Vermiglio. Film che non sarebbero stati, in teoria, da primo posto in classifica, e invece a volte accade, che delle cose non immediate, non consuete, addirittura un po’ più complesse della norma, tocchino qualcosa, e arrivino a un pubblico più largo. 

E allora, come proposito dell’anno che verrà, io voglio credere in The Bad Guy e in quel finale lì, e in tutto quello che a quel finale porta. E propongo un corso accelerato in Mariano Suro, uno che crede solo nelle cose, nei segreti indicibili registrati nelle musicassette come si faceva una volta. Senza reel, senza niente. Saremo matusa, o forse siamo solo adulti.

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