Alla fine di Barbie di Greta Gerwig, il viaggio della protagonista (Margot Robbie) culmina con l’arrivo di un ospite inaspettato: la sua creatrice, la defunta Ruth Handler (interpretata da Rhea Perlman). Dopo aver passato due ore a confrontarsi con la dura realtà – realtà in cui le Barbie non hanno risolto davvero tutte le disuguaglianze; realtà in cui la nostra scopre che, di fatto, le Barbie stesse sono guidate da un gruppo di uomini seduti nei loro uffici in cima a un grattacielo peraltro piuttosto fallico – Barbie è incredula nell’apprendere che in realtà la sua vera creatrice è stata una donna, moltissimi anni prima. “Io sono Mattel”, proclama orgogliosamente Ruth. Per poi aggiungere: “Almeno fino a quando non ho avuto problemi con le tasse”.
In un film in cui Barbie e Ken possono entrare nel mondo reale come versioni a grandezza naturale di sé stessi, il numero impressionante di frecciatine che i co-sceneggiatori Greta Gerwig e Noah Baumbach riescono a lanciare contro la Mattel rende il tutto ancora più paradossale. Barbie potrebbe essere l’ultimo di una serie di blockbuster basati su una Intellectual Property, ma nessun altro marchio al centro di questa tendenza (vedi le produzioni ispirate ai giocattoli LEGO o al recente Super Mario Bros. – Il film, ndt) si avvicina neanche lontanamente alla bambola più famosa del mondo, in fatto di egemonia culturale ma anche di controversie.
Le Barbie sono state onnipresenti nell’infanzia di diverse generazioni, con oltre un miliardo di bambole vendute dalla loro messa in commercio nel 1959; ma più le bambine crescevano, più il dibattito sull’eredità lasciata dal marchio si faceva spinoso e critico. Ora Barbie può essere “ogni donna”, ma tutto ciò tiene davvero conto degli anni in cui quella bambola era diventata il modello a cui opporsi? Tutti abbiamo ancora in mente le critiche riguardanti il suo girovita troppo stretto e l’inevitabile associazione con un ideale di donna bionda minoritario e iper-oggettivizzato. Ma la vera storia di Barbie è complessa e decisamente più bizzarra di quanto forse possiate immaginare.
Come mostra con intelligenza Barbie nel prologo – una rielaborazione fotogramma per fotogramma della celebre sequenza L’alba dell’uomo di 2001: Odissea nello spazio – la bambola rappresentava qualcosa di totalmente nuovo, quando è apparsa alla fine degli anni ’50. Prima del suo arrivo, le opzioni di giocattoli per bambine erano essenzialmente limitate a bambole bebè e giochi che scimmiottavano la maternità. Barbie rappresentava una visione diversa della donna bianca, in linea con l’emergente consumismo americano dell’epoca. Non dovevi essere solo una casalinga, potevi essere una donna di mondo con tantissimi abiti alla moda. E potevi persino avere le curve.
Come narra la leggenda, a Ruth Handler venne in mente di creare Barbie dopo aver notato che sua figlia Barbara e le sue amiche erano molto più affascinate dalle figure femminili adulte che vedevano nei fumetti. In quel periodo, lei era la vicepresidente esecutiva di Mattel, nata come startup nel 1944 a diventata la terza più grande azienda di giocattoli d’America. Tuttavia, quando propose l’idea di una bambola adulta a suo marito e co-fondatore Elliot, lui non fu convinto che un tale giocattolo potesse avere un appeal di massa.
Le cose subirono una svolta durante una vacanza di famiglia nel 1956. Mentre visitavano la Germania, Handler e Barbara rimasero sbalordite nello scoprire Bild Lilli, una bambola elegante e adulta proprio come quella che Handler aveva immaginato. Forte di questa prova reale del fatto che ci fosse spazio per la sua Barbie nel mondo dei giocattoli, Handler si mise al lavoro sui progetti e, nel 1959, Barbie fu finalmente presentata al pubblico all’American International Toy Fair.
Questa storia trascura però un dettaglio chiave: Lilli era originariamente un sex toy. Creata come personaggio di un fumetto per il tabloid di Amburgo Bild-Zeitung, le sue avventure ruotavano attorno al mantenimento del suo lussuoso stile di vita attraverso gli scambi sessuali con uomini facoltosi. In un fumetto, Lilli copre il suo corpo nudo con un giornale. “Abbiamo litigato, e lui mi ha portato via tutti i regali che mi aveva fatto”, spiega a un’amica.
Nel 1953, Lilli divenne così popolare che Bild-Zeitung iniziò a venderla come giocattolo nei sexy shop, nelle tabaccherie e in altri negozi. Anche se all’inizio era un regalo scherzoso molto popolare tra gli uomini, successivamente anche le bambine iniziarono a giocarci – da qui la bambola Lilli che i coniugi Handler videro nella vetrina di un negozio di giocattoli.
Una storia naturalmente “inappropriata” come questa non avrebbe mai convinto i genitori americani a tirar fuori i loro portafogli, quindi Barbie fu presentata come una “modella adolescente”. Le due bambole si assomigliavano così tanto che il produttore di Lilli citò in giudizio i coniugi Handler nel 1961, sostenendo che la Mattel si fosse “falsamente e ingannevolmente presentata come l’ideatrice del design della bambola”. La società risolse la causa fuori dal tribunale e successivamente, nel 1964, acquistò i diritti e i brevetti della bambola tedesca. Lilli, ti abbiamo appena conosciuta e già ti abbiamo persa!
Come suggerisce l’apparizione quasi divina di Ruth Handler alla fine del film su Barbie, la donna fu a suo modo una pioniera. Decima figlia di immigrati polacco-ebrei working class, non aveva rendite o raccomandazioni a cui aggrapparsi. Tuttavia, in un periodo in cui pochissime donne occupavano posizioni di potere, guidò la Mattel fino a raggiungerne la vetta. “Sì, erano le idee di Elliot”, disse una volta in un’intervista. “Sì, era il nome di Elliot. Ma di fatto sono stata io ad avviare la Mattel”.
La sua eredità è rimasta molto presente anche dopo la sua morte, nel 2002, ma il suo effettivo controllo creativo su Barbie fu interrotto all’inizio degli anni ’70. Dopo che lei ed Elliot furono incriminati con l’accusa di aver gonfiato i bilanci delle vendite per aumentare il valore delle azioni Mattel, Handler fu licenziata dalla sua posizione di presidente dell’azienda e condannata a cinque anni di libertà vigilata. Anche se pubblicamente dichiarò sempre la sua innocenza, la donna dietro Barbie non sarebbe stata riassorbita dalla Mattel fino al 1994, quando Jill Barad – la prima delle due uniche CEO donne dell’azienda fino ad oggi – la assunse come portavoce del marchio.
Con il passare dei decenni, le Barbie sono diventate gradualmente disponibili in una vasta gamma di razze e tipologie di corpo, un’evoluzione che si riflette nella Barbieland “alternativa” nel film di Gerwig, anche se inizialmente a Handler non importava affatto che Barbie rappresentasse “ogni donna”. Nel suo libro del 2009 Barbie and Ruth: The Story of the World’s Most Famous Toy and the Woman Who Created Her, Robin Gerber osserva che Handler “non aveva posizioni politiche in proposito, non era interessata ad addentrarsi in questioni che riguardavano gli standard estetici e culturali”.
“Se alle ragazze veniva detto che avrebbero dovuto desiderare di essere bionde e prosperose, la Mattel avrebbe tratto profitto da quel messaggio”, scrive Gerber. Quindi sì, la Mattel ha dato la priorità alle vendite e, soprattutto, alla diffusione delle sue bambole presso quante più bambine possibile. Tuttavia, l’azienda, nel corso della sua storia, ha fatto molte scelte scomode, se non addirittura inquietanti.
Forse la critica più dura a morire nei confronti di Barbie riguarda gli standard irrealistici del corpo proposto alle ragazze. Con la sua vita strettissima e il seno assai generoso, non sorprende affatto che Handler per la sua bambola si sia pesantemente ispirata a un sex toy. Anche gli accessori che la Mattel ha venduto nel corso degli anni successivi non hanno fatto granché per placare le preoccupazioni di molti clienti. Alla Barbie Babysits del 1963 era allegato un libro intitolato Come perdere peso, che consigliava: “Non mangiare!”. Lo stesso libro veniva venduto insieme alla Slumber Party Barbie del 1965, con in aggiunta una bilancia fissa sui 49 chili. Nel 2016 la Mattel ha finalmente iniziato a produrre modelli di bambole “plus-size“, e le Barbie attuali sono disponibili in cinque diverse tipologie di corpo.
Eppure, nonostante le rassicurazioni della narratrice (Helen Mirren!) sul fatto che Barbie ora è “ogni donna”, è significativo che, quando la Barbie Stereotipata di Margot Robbie inizia a funzionare male dopo aver assorbito le crisi esistenziali della sua proprietaria umana, uno dei cambiamenti più terrificanti che può immaginare è l’apparizione della cellulite sulle sue gambe.
Il marchio Barbie ha anche subìto attacchi riguardo alle etnie rappresentate, in particolare con il lancio nel 2001 delle Barbie Oreo School Time Fun, una collaborazione con Nabisco, l’azienda produttrice dei biscotti Oreo. Mentre l’edizione del 1997 includeva solo bambole bianche, una versione del 2001 presentava sia versioni nere che bianche. Come hanno sottolineato molti afroamericani, però, è noto che la parola “Oreo” viene spesso usata in senso dispregiativo e razzista, e rivolta a persone nere accusate di comportarsi come quelle bianche (cioè “neri fuori, bianchi dentro”). A seguito di questa polemica, la Mattel ha ritirato le Barbie Oreo School Time Fun dai negozi.
Barbie è stata una donna in carriera, qualunque fosse il suo campo professionale, fin dalla sua nascita. Secondo la Mattel, ha avuto più di 200 percorsi lavorativi diversi, peraltro aumentati nel corso degli ultimi anni. Questo cambiamento è stato anche una risposta alle critiche rivolte alle bambole che, intenzionalmente o meno, hanno alimentato stereotipi misogini riguardanti l’abilità delle donne nella matematica e nella scienza. Nel 1992, l’American Association of University Women ha criticato la Mattel per il lancio della Teen Talk Barbie, programmata per dire 270 frasi tra cui “La lezione di matematica è difficile!” (la Mattel ha poi eliminato quella frase). Nel 2014, il marchio ha ricevuto ancora una volta parecchie critiche, questa volta per aver raffigurato Barbie come incapace di eliminare un virus informatico senza l’aiuto di due amici maschi nel libro Posso diventare un ingegnere informatico (il libro è stato successivamente rimosso da Amazon).
Uno degli elementi migliori del film Barbie è la capacità della regista Greta Gerwig di raccontare una commovente storia di formazione femminile senza che il suo stile personale sia influenzato dalle logiche dei grandi Studios. Utilizzando Barbie e Ken come elementi chiave di una satira sull’ansia, sempre presente della nostra cultura, riguardo alle norme di genere, Gerwig e Baumbach si divertono a scrivere le battute forse migliori per i personaggi secondari della storia: dalle bambole ormai fuori produzione come l’amica incinta di Barbie, Midge (Emerald Fennell), allo sfortunato “amico” di Ken, Allan (Michael Cera); fino alla Barbie Stramba di Kate McKinnon, perfetta sintesi delle bambole senza capelli e tutte scarabocchiate dimenticate da decenni in moltissime cantine.
Verso la fine del film, tutti questi “reietti” hanno il loro momento di gloria. C’è l’Earring Magic Ken del 1993, che sfoggiava un accessorio che il critico del Chicago Reader Dan Savage ha trovato sospettosamente molto simile ai cock ring preferiti dagli uomini gay all’epoca; lo Sugar Daddy Ken del 2009, chiamato così sicuramente a causa del suo cane, ma dal nome comunque equivoco; la Barbie Video Girl del 2010, la cui videocamera incorporata era supercool, almeno finché l’FBI ha notato che poteva essere usata per la pornografia minorile; e la Growing Up Skipper del 1964, ovvero la bambola che sviluppa il seno se si ruota il suo braccio sinistro.
Il film su Barbie si può amare o odiare, ma la grande avventura hollywoodiana della Mattel è appena iniziata: secondo il New Yorker, l’azienda ha in sviluppo 45 film basati sulla sua proprietà intellettuale. Ma senza un marchio iconico come Barbie o una regista geniale come Gerwig, chi può dire se avranno successo? La Mattel può procedere a tutta velocità, ma se le surreali avventure di Barney o l’horror ispirato a Magic 8 Ball dovessero essere dei fallimenti, solo a sé stessa potrà dare la colpa.