Dalla sua anteprima alla Berlinale dello scorso anno, No Other Land, un documentario sull’occupazione israeliana della Cisgiordania, ha vinto decine di premi della critica e si è guadagnato un’ambita nomination agli Oscar come miglior documentario. Ma lo straziante film, co-diretto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor, non ha ancora trovato una distribuzione negli Stati Uniti. La sua limitata uscita nelle sale è interamente indipendente, poiché molti Studios hanno evitato un film che mostra il violento trattamento dei palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele.
Il documentario è nato dalle riprese che Adra ha iniziato a fare da adolescente nella sua casa di Masafer Yatta, un’area della Cisgiordania che da decenni è sotto la costante minaccia di distruzione da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e del governo israeliano. Alcuni anni fa, Adra ha incontrato Abraham, un cittadino e giornalista israeliano che aveva visitato la Cisgiordania per documentare la situazione. I due sono diventati improbabili amici e alleati, e Abraham si è presentato regolarmente per sostenere l’attivismo di Adra. Quando hanno iniziato a collaborare, è sembrato ancora più importante condividere il loro lavoro a livello globale. La coppia si è unita a Szor, una direttrice della fotografia israeliana, e a Ballal, un regista e fotografo palestinese, per creare un collettivo di attivisti transfrontalieri. Il gruppo ha trascorso gli ultimi cinque anni a mettere insieme No Other Land, con molto impegno.
Il film descrive la situazione tumultuosa di Masafer Yatta, una comunità agricola che esisteva da prima della nascita di Israele. Per anni, l’IDF ha costretto i residenti a lasciare le loro case, ha raso al suolo le proprietà e ha permesso ai coloni israeliani di attaccare le famiglie palestinesi: tutto ciò è documentato in No Other Land. La violenza in Cisgiordania è aumentata dopo l’attacco del 7 ottobre e il recente cessate il fuoco tra Israele e Hamas ha solo peggiorato la situazione nella regione. Infatti, secondo un rapporto di Al Jazeera che cita il Ministero della Sanità palestinese, dall’inizio dell’anno l’IDF ha ucciso in Cisgiordania più di 70 persone, tra cui 10 bambini, durante operazioni militari su larga scala, rendendo il film ancora più attuale.
«È fantastico che siamo stati nominati [per l’Oscar] e che la gente ne parli, ma tra qualche mese passeranno al prossimo film o al prossimo tema», dice Abraham a Rolling Stone, parlando via Zoom da Israele insieme ad Adra, che è invece collegato dalla Cisgiordania. «E noi continueremo il nostro lavoro. È la missione della nostra vita porre fine all’ingiustizia che sta accadendo qui e rendere questo posto migliore. È per questo che non puntiamo tutto su questo Oscar, perché in fin dei conti è solo una statuetta. È importante perché aumenta la consapevolezza su ciò che racconta il film. E siamo grati di essere stati nominati. Ma cerchiamo anche di mantenere le cose nella giusta proporzione, perché qui la gente muore ogni singolo giorno. Gaza è distrutta. La comunità di Basel potrebbe non esistere tra qualche anno, se non ci sarà un cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti. La casa di Hamdan potrebbe essere distrutta in qualsiasi momento».
E aggiunge, riguardo alle circostanze attuali: «Con o senza l’Oscar, le cose vanno davvero, davvero, davvero male. I simboli sono utili, ma abbiamo bisogno di azione e di cambiamento. Anche la statuetta non può salvare la casa di Hamdan. Continuiamo a usare questi simboli per cercare di creare un cambiamento, che purtroppo non è ancora arrivato».
Adra e Abraham hanno parlato con noi della realizzazione di No Other Land e di ciò che sperano che gli spettatori facciano dopo averlo visto.
Basel, prima di parlare del film puoi descriverci la situazione attuale in Cisgiordania?
Basel Adra: Due giorni dopo il cessate il fuoco a Gaza [il 19 gennaio], il governo israeliano ha lanciato una campagna militare in Cisgiordania. Tutte le città, i paesi e le comunità della Cisgiordania sono letteralmente sotto assedio. I soldati sono presenti 24 ore su 24 ai posti di blocco, rendendo la vita delle persone impossibile. Ad alcuni posti di blocco si trovano migliaia di auto in attesa. In altri centinaia o decine, dipende dai checkpoint. In Cisgiordania sono state uccise decine di persone, tra cui bambini, e nei campi si sta verificando una pulizia etnica. Ci sono bombardamenti e demolizioni delle case dei residenti. L’area in cui vivo, chiamata Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sottoposta ad attacchi e molestie quotidiane da parte di soldati e coloni. Nelle ultime settimane è stata una follia. I coloni [israeliani] hanno invaso la comunità in cui vive un mio amico, hanno bruciato la sua auto e hanno attaccato la sua famiglia, compresi due bambini. Due giorni fa un altro amico e collega ha subìto l’invasione della sua casa da parte di 20-30 coloni, che hanno distrutto la sua auto e hanno cercato di distruggere la sua casa e altre case della comunità. Per parlare dei dettagli ci vorrebbero ore, perché quello che sta succedendo è davvero assurdo. Non è mai stato così grave come oggi. Tutta la mia vita è influenzata da ciò che sta accadendo.
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Quando hai iniziato a filmare ciò che stava accadendo a Masafer Yatta, era semplicemente per documentare la situazione?
BA: Sì. Non immaginavo che avrei fatto un film, perché quando ho iniziato ero un adolescente. Non sapevo molto del mondo del cinema o di dove avrei potuto arrivare con queste riprese. Ho iniziato [a filmare] per avere un documento, perché è importante mostrare la verità, la realtà, la vita quotidiana, quello che succede, e anche il potere delle prove che dovremmo avere.
Una volta che vi siete incontrati, che impatto ha avuto sulla storia che volevate raccontare?
BA: Abbiamo sempre pensato: “Cosa dovremmo fare con questi filmati?”. A volte li usavamo sui social media o li inviavamo alle organizzazioni per i diritti umani perché li pubblicassero. Yuval si è unito a noi come giornalista per scrivere di ciò che stava accadendo. Rachel era in giro con una telecamera a filmare. All’inizio non avevamo un’idea precisa. Abbiamo deciso di fare un film dopo alcuni incontri e dopo essere stati sul campo insieme all’altro co-regista, Hamdan. L’idea ci piaceva, anche se nessuno di noi aveva esperienza di documentari lunghi. Abbiamo iniziato il viaggio insieme circa cinque anni fa.
Yuval Abraham: Fin dall’inizio ci è stato molto chiaro che stavamo assistendo – Basel per tutta la vita e io quando ho iniziato a venire ogni settimana – a qualcosa di orribile che l’esercito israeliano stava facendo. Ricordo che eravamo seduti a casa di Basel e vedevamo le persone cacciate dalle loro case e le loro case rase al suolo e i camion che versavano cemento nei pozzi d’acqua. E poi aprivamo i media, quelli israeliani e quelli internazionali, e non vedevamo nulla al riguardo. Fin dall’inizio ci è stato molto chiaro che volevamo raccontare la storia di questa comunità che sta lottando per sopravvivere, che viene trasferita con la forza dalle proprie terre per destinarle agli insediamenti [israeliani] della zona. Abbiamo concordato tra noi quattro che, poiché è piuttosto complicato fare un film come collettivo, non solo perché siamo israeliani e palestinesi, ma in generale perché le persone prendano decisioni insieme, avremmo dovuto avere un consenso totale su tutto. Quando abbiamo guardato il materiale, abbiamo notato diversi tipi di cose e abbiamo preso diversi tipi di decisioni.
Qual è un esempio di questo?
YA: Abbiamo inserito nel film alcune delle conversazioni che io e Basel abbiamo avuto. Abbiamo pensato che sarebbe stato interessante analizzare lo squilibrio di potere tra israeliani e palestinesi attraverso i nostri personaggi. Ci sono così tante famiglie devastate da questa politica, ma abbiamo deciso di concentrarci su una famiglia, quella di Harun Abu Aram, che è stato colpito e ha finito per essere ucciso solo perché voleva avere un generatore che i soldati volevano confiscare. Quindi siamo partiti con questo pensiero iniziale su ciò che avremmo voluto raccontare, per far luce sulle atrocità che stanno accadendo a Masafer Yatta, e credo che il film abbia acquisito più strati nel corso del tempo, man mano che ci lavoravamo.
Quante ore di riprese avete fatto in totale?
YA: Non sono sicuro che le abbiamo mai contate, ma si trattava di oltre vent’anni di riprese comunitarie effettuate da Basel, dalla sua famiglia e dai suoi amici. Abbiamo girato per cinque anni e abbiamo filmato moltissimo. Abbiamo filmato tutto, per tutto il tempo. Il montaggio è stato una sfida enorme. Erano migliaia di ore di filmati.
Nel film vediamo che i soldati dell’IDF cercano di impedirvi di filmare. Ci sono state esperienze o situazioni che non siete riusciti a riprendere per il documentario?
BA: Purtroppo sì. Cercano sempre di renderci difficile raggiungere i luoghi e filmare. Molte volte andavano a distruggere un luogo o delle strutture e quando riconoscevano le nostre auto istituivano un posto di blocco con una delle loro jeep in mezzo alla strada per bloccarci e fermarci, per controllare i nostri documenti e le telecamere e per farci perdere tempo finché il bulldozer non poteva distruggere il posto. Durante gli attacchi dei coloni o dei soldati, emettevano ordini militari di “area chiusa”, in modo che solo i soldati fossero autorizzati a stare lì, sebbene permettessero anche ai coloni di stare lì. Se andavamo a filmare, cercavano di arrestarci. Nel 2020, sono stato aggredito fisicamente da quattro soldati per aver portato una telecamera e aver filmato due coloni che inseguivano un palestinese. È stato davvero uno dei momenti che non dimenticherò mai. È stato spaventoso. E c’è stato un momento avvenuto circa due anni fa e presente anche nel film in cui sono stato attaccato fisicamente dai soldati per averli ripresi. La mia casa è stata invasa più volte. Una volta sono venuti a confiscare le telecamere, il computer portatile e l’auto che usavo insieme ad altri attivisti. Cercano sempre di impedire la documentazione di quello che accade. Non vogliono che la gente veda quello che stanno facendo qui.
Perché ritieni che sia così importante che le persone fuori dal Medio Oriente possano vedere ciò che sta accadendo lì?
BA: È importante che la gente conosca la realtà. Viviamo una situazione piena di ingiustizie. Molte volte sentiamo un pregiudizio da parte dei media tradizionali. Ad esempio, credono a ciò che il portavoce dell’esercito israeliano dice su una questione importante e seguono la narrazione israeliana. Masafer Yatta, oggi, è in gran parte minacciata di demolizione da parte del governo israeliano. E il governo israeliano dice che i palestinesi costruiscono illegalmente e che la stanno distruggendo a causa dell'[attuale occupazione militare], cosa che [credo] non sia vera. La legge ci viene imposta dal potere. È una legge militare. Il problema sul campo è che ci stanno spingendo fuori dalla nostra terra per costruire insediamenti. La legge qui è [usata come] un’arma per rendere illegale la nostra esistenza come palestinesi e legale l’esistenza di questi coloni, che vengono da tutto il mondo.
Il riconoscimento globale che il film ha ricevuto ha aiutato la vostra lotta?
BA: Finora no. Questa è la parte triste. Il film sta andando molto bene all’estero, nei festival, tra il pubblico e l’attenzione dei media. Ma la situazione sul campo sta andando molto male. E poi vediamo l’amministrazione di [Donald] Trump e come si comporta e come parla della situazione qui e del suo piano di pulizia etnica dei palestinesi e di tutte le parole di merda che dice. Quindi, purtroppo, il futuro non sembra promettente.
Come vi siete sentiti quando No Other Land è stato candidato all’Oscar?
YA: In fin dei conti, siamo documentaristi. Come attivisti, giornalisti e registi, stiamo documentando qualcosa che accade nella realtà e lo facciamo perché vogliamo che la gente veda quello che vediamo noi. Per me, il valore principale della nomination all’Oscar è che porterà più persone a vedere il film e a vedere ciò che stiamo documentando. Quando lo abbiamo realizzato abbiamo sempre pensato tra noi: “La gente lo vedrà?”. Avevamo paura che lo vedessero solo i nostri genitori. Abbiamo montato il film praticamente in una grotta a Masafer Yatta. Non avevamo un budget elevato o mezzi sofisticati. E continueremo a documentare, perché è quello che facciamo. Non so quanto sia efficace e posso ancora sperare che alla fine abbia qualche effetto. Ma al momento, come ha detto Basel, è molto difficile vedere la luce alla fine del tunnel.
BA: Non avremmo mai immaginato di essere candidati all’Oscar o di andarci. Ma è una cosa fantastica. È un’ottima cosa per la mia comunità e la sua storia, e speriamo che un giorno il nostro lavoro possa influire positivamente sulla situazione in loco.
Riuscirete a partecipare agli Oscar?
YA: Lo faremo. Ma Hamdan non ha ancora il visto. Speriamo che sotto l’amministrazione Trump, essendo candidato agli Oscar, lo ottenga. Non lo sappiamo. E Basel vuole invitare la sua famiglia, la famiglia di Hamdan e la mia, e dobbiamo vedere se sarà possibile. Per un palestinese che viaggia all’estero, non si tratta solo del processo di rilascio del visto. Bisogna anche attraversare tre posti di blocco: quello militare di Israele, quello dell’Autorità Palestinese e quello giordano. Perché i palestinesi non hanno un aeroporto e i militari possono decidere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ogni volta che viaggiamo, mi sembra un miracolo che riusciamo a farlo. Non siamo riusciti a farlo spesso, ma è importante che ci siamo tutti e quattro insieme.
Il film è attualmente candidato a un BAFTA e a un Oscar, ma non ha ancora una distribuzione negli Stati Uniti. Perché è stata una tale sfida?
YA: Avete un presidente che [questa settimana] ha letteralmente detto che due milioni di persone di Gaza devono essere trasferiti in altri Paesi, invocando la pulizia etnica di un’intera regione. Ha detto che gli Stati Uniti saranno proprietari di Gaza. Forse questa è una parte della risposta. Nel vostro Paese ci sono persone politicamente estremamente razziste, che esitano a criticare le politiche israeliane che io, come israeliano, voglio criticare affinché le cose cambino. Non solo non [parlano], ma sono complici ogni volta che una casa palestinese viene distrutta a Masafer Yatta. Gli Stati Uniti sostengono, sia finanziariamente che diplomaticamente, l’occupazione israeliana e permettono che continui. Non stanno usando la loro influenza per imporre una qualche soluzione politica che garantisca l’uguaglianza per tutti, per i palestinesi e per gli israeliani. Perciò penso che sia un atto politico. Se si trattasse di un film su un altro argomento che si allinea al modo in cui gli Stati Uniti percepiscono i loro interessi geopolitici, ora avremmo un grande distributore. Ma sono ancora fiducioso che le cose cambieranno. C’è un’enorme, enorme domanda per il film negli Stati Uniti. Perché non dialogare, anche se non si è d’accordo con noi? Perché censurare? Perché non permettergli di uscire allo scoperto, in modo che le cose possano essere viste e che ci possa essere una conversazione pubblica su questo importante problema di cui gli Stati Uniti sono in gran parte responsabili?
Che sentimento volete lasciare nelle persone alla fine di No Other Land?
YA: Per noi era importante che ci fossero due emozioni. Una è il terrore, ovvero l’esperienza della comunità di Masafer Yatta che viene distrutta. Ma volevamo anche che ci fosse un’emozione di forza e di speranza. Le persone lì non sono solo vittime. Stanno sopravvivendo. Si tengono strette le loro terre. Stanno vivendo la loro vita. Volevamo che ci fosse questo mix di sentimenti, in cui si sentisse quanto sono dure le cose, perché la realtà è molto, molto dura, ma anche che si andasse via con una certa volontà di agire e un’emozione attiva nel cuore.
BA: Voglio che la gente si senta responsabile. Che ci aiuti a uscire da questa situazione. Oggi è il pubblico la nostra speranza. E speriamo che agisca insieme a noi.