Il cinema oggi chissà cos’è, chissà dov’è, si chiede il produttore francese interpretato da Mathieu Amalric, e ultimamente ce lo chiediamo un po’ in tanti. Per domandarci subito dopo, sempre noi cinefili sciagurati e sentimentali che non sappiamo (non possiamo) mai separare una cosa dall’altra: la vita oggi chissà cos’è, chissà dov’è. Nanni Moretti con Il sol dell’avvenire ci dice, come prima cosa, che il cinema (dunque la vita) può, deve essere ancora qualcos’altro. Un luogo fuori da questo tempo, e dentro un tempo che è solo suo. Un luogo che è sempre prossimo alla vita, ma che contiene e riplasma la vita come vuole, ogni volta. Ma a questo arriverò alla fine.
Nanni Moretti è l’unico regista che può davvero fare – e raccontare – un cinema dentro un tempo che apparentemente non esiste più, che è solo il suo. In un’epoca di sovrainformazione su qualsiasi cosa, Il sol dell’avvenire, come i precedenti, è un film di cui si sa tutto solo nel momento in cui lo si vede. Per il resto, set come sempre blindatissimo, a dispetto di quel che ci fa credere il meraviglioso Instagram dell’autore; due striminzitissime righe di trama nei comunicati stampa, righe che peraltro corrispondono ben poco (e giustamente) a quel che c’è sullo schermo; un poster francese che è più bello di quello italiano, e giù le indignazioni sovraniste; interviste in tv in cui le uniche risposte ammesse sono “sì” e “no”, perché – parafraso Moretti stesso – non sono di certo i registi quelli che devono spiegare o capire i loro film. (Dai pochi secondi di un’altra intervista anticipata sui social, credo che invece a Concita De Gregorio si sia concesso un po’ di più: ma quando uscirà quella chiacchierata il film sarà già nelle sale, e non è un piccolo particolare).
Cos’è Il sol dell’avvenire, dov’è Nanni Moretti oggi. Scriveranno tutti – l’hanno già scritto – che questo è il suo ritorno alla commedia dopo Mia madre e Tre piani. Ma è improprio definirlo semplicemente così. Il sol dell’avvenire è, per certi versi, un film ancora più drammatico dei due che l’hanno preceduto. Liberamente, spudoratamente, gioiosamente drammatico. “Un film pessimista sull’amore”, come Barbora (Bobulova) descrive il film-nel-film diretto da Giovanni (Moretti) in cui recita insieme al collega Silvio (Orlando).
Giovanni, che fa un film ogni cinque anni, sta appunto girando la storia del segretario di una sezione del PCI di borgata (il personaggio di Orlando). È un momento chiave: al Quarticciolo arriva un circo ungherese, regalo del Partito, proprio nei giorni in cui l’Unione Sovietica invade Budapest. Che fare? Da che parte stare? Nel frattempo, vediamo un Nanni a pezzi (cit.) pure nella vita privata: la moglie Paola (Margherita Buy, forse l’unica tra gli interpreti a non mantenere il suo vero nome pure nella finzione), da sempre anche la sua produttrice, ha iniziato l’analisi, la figlia indovina chi porta a cena, e se quell’idea disperatissima e finale con cui si chiude la sceneggiatura del suo non fosse in realtà anche il finale della sua vita?
Scriveranno anche – l’hanno già scritto – che Il sol dell’avvenire è un film sul cinema, il suo e in generale, e questo è certamente vero. È una specie di risposta a Cinema Speculation di Tarantino, e forse Nanni non sarà felice di leggerlo; ma Il sol dell’avvenire sembra davvero un saggio privato e pubblico sulle sue passioni da spettatore, e sulle scelte estetiche ed etiche (scena chiave, spassosissima e profondissima) che ogni film comporta, che lo si faccia o lo si guardi. Un luogo meta e inter/ipertestuale, un campo di riflessione aperto a tutto: la politica; l’amore e la famiglia; ma anche, appunto, i film che rendono possibili – o, addirittura, ineluttabili – tutte le nostre scelte politiche, e sentimentali, ed esistenziali. Ma anche a questo arriverò alla fine.
Il cinema che Moretti mette dentro Il sol dell’avvenire è funzionale, come sempre accade nei suoi film, a dirci chi è lui, chi siamo noi, in questo momento. C’è Lola di Jacques Demy, e La caccia di Arthur Penn, e un lungo studio, lo chiamerei così, sull’estenuante scena dell’omicidio in Breve film sull’uccidere di Kieślowski. E c’è Fellini: La dolce vita che passa in un vecchio cinema, in una sequenza che mi ha ricordato Ettore Scola; il circo e I clowns, naturalmente; e 8½ nella passerella finale che dire strappalacrime strappacuore strappatutto è poco, ma davvero sarebbe criminale rovinare la sorpresa. (Così come non si può dire qual è la grande assente, in quella sfilata su sfondo di bandiere rosse e Colosseo; assenza che fa piangere altre lacrime.)
Ci sono tantissime comparsate che fanno molto ridere (ma anche qui sarebbe un danno spoilerare, e scusa Nanni per la parola: è peggio di slow burner, lo so), e l’ossessione per Netflix, e il monopattino al posto della Vespa, e “mia madre” evocata almeno due volte, e Tenco, e Battiato, e Noemi, e Joe Dassin. E il ballo. “Se si balla non vengo”, diceva il giovane Michele/Nanni quando tutto era appena cominciato, e invece adesso si balla sempre perché todo cambia, e poi non cambia niente.
Arrivo al punto. Nell’epoca dell’affollamento di contenuti (altra parola orrenda), dell’ansia di vedere tutto, dell’aggiornamento obbligatorio, della FOMO costante per cui non si può mai restare indietro; in quest’epoca precisa, Il sol dell’avvenire sembra un oggetto arrivato da un altro tempo per spiegarci cosa abbiamo perso, cosa stiamo ancora perdendo, mentre siamo impegnati a correre instancabilmente. Mentre vedi Il sol dell’avvenire ti sembra che tutto si stia fermando per darti finalmente quello che ti era mancato e che il tuo cinema preferito ti ha sempre dato: un altro tempo, che però in qualche modo era il tuo tempo.
Il sol dell’avvenire ci dice che esiste un tempo – che è quello del cinema, e quello della vita – che si costruisce e si distrugge ogni volta, ma che tiene insieme tutto. Un tempo per ordinare, scompaginare, andare in crisi, ricominciare, piangere, lasciarsi, schierarsi, ripensarci, ammorbidirsi, ballare. Un tempo che, appunto, è un campo dove mettere dentro tutto, come fa questo film che non vuole trovare un registro, un ritmo, un fuoco: c’è tutto, tutto insieme. La crema allo zenzero e gli antidepressivi, i sabot e il suicidio, le piscine e le distrazioni da smartphone, la Storia fatta con i “se” e il quartiere Mazzini, la tragedia greca e il musical, la tessera del partito e la lampada rossa in una casa presa in affitto, i riti che possono finire e il camminare sopra corde tese, le lacrime e i silenzi, entrambi d’amore, sempre. C’è Nanni, ci siamo noi.