Della polemica mi accorgo grazie all’hashtag #Calabria in tendenza su Twitter, cosa che per un attimo mi fa sobbalzare: ci sarà stato un picco di contagi da coronavirus? Perché mia madre non mi ha telefonato allarmata? In una regione, la mia, in cui la sanità pubblica non è mai stata una priorità della classe politica, si vive nella costante speranza che non succeda mai nulla. Poi mi accorgo che alla Calabria è associato il nome del regista Gabriele Muccino, che alla Festa del cinema di Roma ha presentato un corto dedicato alla mia regione, titolo Calabria terra mia. Protagonisti Raoul Bova, nato a Roma ma di origini calabresi, e la compagna, l’attrice spagnola Rocío Muñoz Morales.
Il primo commento indignato che mi compare davanti è quello di un mio vecchio compagno di scuola, che con tono dolente elenca gli stereotipi che, secondo lui, sviliscono l’immagine della Calabria: le bretelle, gli asinelli, la coppola. Guardo perplessa la foto di copertina che il mio amico ha messo su Facebook: indossa la coppola. Vorrei rispondere, mi distraggo, è già pieno di commenti. I più frequenti sono relativi ai costi del cortometraggio (1,7 milioni di «nostri soldi!», in una regione che vanta record di evasione fiscale) o alla qualità del regista prescelto («Tanto che Muccino fosse un pessimo regista lo sapevamo, fa solo film con gente che si tradisce», con quel tic di chi giudica la qualità di un autore in base ai propri gusti personali. Come dire: quello lì scrive gialli, io odio i gialli, quello scrittore fa schifo).
Un amico milanese mi scrive «Sei molto arrabbiata?», e capisco che la questione ha superato i confini regionali. Guardo il corto, sei minuti (otto, con i titoli di coda) di immagini obiettivamente meravigliose, cartoline che fanno da sfondo al buon Raoul che mostra a una stupita Rocío le bellezze dei luoghi in cui è cresciuto. I borghi, gli aranceti, il mare in cui ha imparato a nuotare, i tramonti con le isole Eolie all’orizzonte.
Forse i miei conterranei avrebbero preferito che si mostrasse un altro prodotto tipico regionale, ammirabile anche su Instagram, che gli dedica l’account Incompiuto calabrese: un manufatto edilizio le cui caratteristiche sono la facciata senza intonaco, i pilastri a vista che svettano come torri metalliche, i mattoni corrosi da tempo e intemperie. Bozze di edifici a cui, un anno fa, è stata dedicata anche una mostra, Il non finito calabrese, organizzata dall’editore Rubbettino. Case che non saranno mai terminate, ma che descrivono un’aspirazione: se un giorno vorremo vivere tutti insieme, genitori e figli tornati in Calabria grazie allo smart-working, metteremo mano a cemento e cazzuole e il sogno di una regione che riaccoglie i suoi figli verrà realizzato.
Forse si preferiva invece che Muccino raccontasse, con le immagini, le immense distese di rifiuti che si accumulano nelle zone più varie di paesini e capoluoghi. La scorsa estate, che ha visto il trionfo della Calabria, riscoperta come luogo di villeggiatura, le sculture di sacchi di immondizia mai rimossi da città pur bellissime come Reggio Calabria sono state uno dei fattori più discussi durante le elezioni del sindaco.
Guardo ancora il corto, con Rocío e Raoul che flirtano tra gli alberi di clementine o percorrendo i vicoli di paesini dell’entroterra mentre la popolazione locale si volta a guardarli, e mi viene in mente la serie Master of None di Aziz Ansari (buonanima: è una delle vittime della campagna #MeToo), la cui seconda stagione, per due puntate ambientata in Italia, a Modena, restituiva immagini di bambini che correvano per strada in canottiera e ladri in bicicletta. L’indignazione non mancò anche allora, lo stereotipo di un’Italia così rurale era davvero fastidioso. Ma se all’estero l’immagine che hanno del nostro Paese non si è mai allontanata dal neorealismo, di chi è la colpa? Tra le serie tv italiane più famose e vendute nel mondo c’è Il commissario Montalbano: coppole, donne abbigliate come se vivessero negli anni ’50, anziani che giocano a carte per strada e bambini scalzi ovunque. Eppure.
«Ma basta, davvero si parla ancora di bergamotto? E poi quando mai ci sono state le arance in estate?», si lamentano i miei amici calabresi. Il bergamotto, è vero, cresce solo da noi, in provincia di Reggio. Non credo esista chi, parlando con un amico del Nord venuto in visita, non si sia vantato di questa unicità. E, quanto alle arance, esiste anche una varietà estiva, le tardive di Trebisacce, che si possono gustare fino a fine giugno. Ma non è questo il punto.
Si è scritto altrove che Muccino non è Pasolini. È vero, ma aggiungo: per fortuna. Perché di immagini della Calabria in stile pasoliniano non ce n’è bisogno, bastano i telegiornali nazionali. Per Jole Santelli, presidente della regione venuta a mancare una decina di giorni fa, l’obiettivo di questo corto commissionato a Muccino era quello di valorizzare la Calabria, raccontarne i luoghi e le caratteristiche che la rendono una meta turisticamente appetibile su un mercato, quello estero, che ancora non la conosce. A me sembra che lo scopo sia pienamente raggiunto. Non doveva essere un documentario, ma una pubblicità d’autore. Con buona pace dei puristi della stagionalità delle arance.