Scrivere che se ne è andato Isao Takahata farà scattare molti meno RIP e lacrimucce (più o meno consapevoli) sui social di quelli che un maestro dell’animazione come lui meriterebbe. La consolazione è che, se invece riportiamo che è morto colui che ha affiancato Miyazaki nella regia della prima serie delle Avventure di Lupin III, e che, con lui, ha trasformato in cartoni animati di culto titoli della letteratura per ragazzi come Heidi e Anna dai capelli rossi, i RIP aumentano. Ma Takahata ero molto di più del papà della pastorella dalle guance rosse di Johanna Spyri.
Se poi ricordiamo che proprio con Miyazaki nel 1985 è stato tra i fondatori dello Studio Ghibli, forse iniziamo ad avvicinarci a quello che un saluto degno della sua arte dovrebbe essere. Perché Takahata e Miyazaki sono inscindibili, due facce della stessa medaglia, due visionari, accomunati da una poetica affine, ma non medesima. Due veri e propri padri, senza la cui sanissima follia l’animazione giapponese non avrebbe mai avuto il suo pezzo da novanta: il Ghibli.
Takahata ha diretto, prodotto e scritto molti dei gioielli usciti dalla leggendario laboratorio del Sol Levante: sue sono tre meraviglie come La storia della Principessa Splendente, incantevole trasposizione dell’antica fiaba del folklore giapponese Il racconto di un tagliabambù, Pioggia di ricordi, dramma nostalgico per adulti (anzi, per adulte) tra i meno conosciuti dello studio e, soprattutto, Una tomba per le lucciole, che racconta l’incubo di un ragazzo e della sua sorellina nel Giappone straziato dalla bombe dei B-25 americani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quel film è un capolavoro assoluto. Cioè, se devo fare una lista dei miei lungometraggi preferiti usciti dallo Studio Ghibli, c’è La città incantata e poi Una tomba per le lucciole. Eppure è un‘opera estremamente controversa, disturbante per il suo crudissimo realismo, «un film così commovente e potente che è difficile guardarlo più di una volta», come ha espresso benissimo Marc Hairston, uno dei più grandi esperti di pedagogia legata all’anime. In realtà, ovviamente, l’ho guardato e riguardato. Due volte. Ma non so se sarò mai in grado di rifarlo. Perché ti senti completamente inutile, impotente davanti alle immagini che scorrono sullo schermo. Perché ti rimangono negli occhi l’innocenza e la grazia con cui i due protagonisti sono ritratti, e che fanno perfettamente a pugni con la tragedia e con le squallide logiche della ricostruzione. Perché è molto di più di un cartone animato contro la guerra.
Takahata era in grado di mettere la vita, per quanto dura, nelle sue opere. Letteralmente. Era sopravvissuto ai bombardamenti statunitensi e all’eta di nove anni, durante un raid nel 1945 nella città di Okayama, era fuggito in pigiama e a piedi nudi in mezzo a un mucchio di cadaveri. Quella scena è descritta proprio in Una tomba per le lucciole. Poi da giovane possedeva una Fiat 500 Abarth, la stessa che ha fatto guidare a Lupin e che ebbe un boom di vendite in Giappone. Ma questa è un’altra storia.
La fioritura dei ciliegi quest’anno è un po’ più triste.