È estremamente difficile non innamorarsi di Jeff Buckley. Adone con un’estensione di quattro ottave, il cantautore aveva la sensibilità di un folkie dei primi anni Settanta, le capacità melodiche e muscolari di un praticante del grunge dei primi anni Novanta e un sex appeal da frontman senza tempo. Ha annoverato Nina Simone, Judy Garland, i Led Zeppelin e Nusrat Fateh Ali Khan tra le sue influenze musicali ed è stato in grado di replicare i loro stili vocali in modo sorprendente. Trasferitosi da Orange County, California, a New York, Buckley inizia a suonare la chitarra e a cantare cover al Sin-é, un caffè del Lower East Side. Ben presto introduce le sue composizioni originali nel suo set e i rappresentanti delle case discografiche cominciano a frequentare in massa i suoi spettacoli. Il suo debutto del 1994, Grace, lo consacra immediatamente come la next big thing, e anni di tournée fanno crescere esponenzialmente la sua fanbase. Buckley stava scrivendo il suo secondo album quando annegò accidentalmente nel 1997, all’età di 30 anni.
Questa potente combinazione di bell’aspetto, talento generazionale e tragedia insensata ha trasformato Buckley in una figura di culto, in cui la mitologia romantica di una persona sempre giovane, sexy e piena di potenziale non realizzato minaccia costantemente di mettere in ombra l’eredità musicale stessa. It’s Never Over, Jeff Buckley, il ritratto di Amy Berg del grande cantautore scomparso (presentato in anteprima al Sundance Film Festival e prossimamente in Italia, ndt), ha l’impressione di camminare costantemente su una linea sottile tra il fare un tributo un po’ lezioso e il riportare la nostra attenzione su Buckley, l’artista bohémien che sapeva fare il Do alto. L’amore di Buckley per il suo lavoro è genuino. Così come l’amore per la persona che molti degli intervistati qui ricordano. L’agiografia diretta, per fortuna, non era un’opzione. Ma questa è pur sempre la versione della storia autorizzata dagli eredi, anche quando scava nei demoni e negli episodi depressivi del protagonista.
Tuttavia, se siete il tipo di “Buckleyphile” che ha consumato diverse copie di Grace, che ha studiato le canzoni che compongono il secondo disco Sketches for My Sweetheart the Drunk, nato morto, come se fossero passi della Torah, e ascolta ancora regolarmente il bootleg del concerto di Arlene’s Grocery, qui c’è molto per cui entusiasmarsi. La madre di Buckley, Mary Guibert, è stata estremamente protettiva nei confronti del figlio e delle sue canzoni, ma ha aperto gli archivi per il film di Berg. Ci sono foto di Buckley da piccolo, paffuto e sorridente, e di Buckley adolescente con una cresta da metallaro; spezzoni di lui che suona nelle band del liceo, scorci di quaderni pieni di eleganti scarabocchi che si possono descrivere solo come “buckleyeschi”. La musica di ogni fase della sua carriera, sia in forma grezza che finita, viene riprodotta nella colonna sonora, insieme a messaggi vocali – tra cui l’ultimo che ha lasciato a sua madre – e a battute sulle sessioni di registrazione. Le rarità abbondano, e questo fa sì che il film assomigli tanto a un tour nei suoi archivi quanto a una specie di album visivo.
Ci sono anche molte informazioni “dall’interno”, dato che le persone che lo conoscevano meglio – Guibert, naturalmente, ma anche le sue ex fidanzate Rebecca Moore e Joan Wasser, i membri della band Michael Tighe e Matt Johnson, il produttore Andy Wallace, il tour manager Gene Bowen, i compagni di viaggio Aimee Mann e Ben Harper – colgono l’occasione per aprirsi su tutto ciò che riguarda Jeff. Sua madre racconta l’unico incontro di Jeff con suo padre, il cantante-chitarrista Tim Buckley, che si era separato da Guibert quando il figlio aveva sei mesi. Lei aveva portato Jeff, sette anni, a un concerto di Tim, dopo il quale il bambino era andato a casa con il padre per una settimana, per poi tornare con una scatola di fiammiferi con il numero di telefono dell’uomo inciso all’interno. Buckley Senior morì di overdose di eroina poco dopo. Mary Guibert racconta anche di aver spinto il ventenne Jeff a esibirsi in un tributo al padre alla chiesa St. Ann’s di Brooklyn, e che il figlio inizialmente rifiutò: non voleva vivere sotto l’ombra del padre. Ma Jeff non solo cedette e cantò I Never Asked to Be Your Mountain, la scelta più edipica che si possa immaginare, ma indossò il cappotto di suo padre sul palco. In seguito le disse di aver lasciato quell’esibizione “con circa 60 biglietti da visita”.
In quell’importante concerto a New York conobbe anche Moore, un attore di teatro che viveva con Jeff e che ci dà un’idea di come potesse essere un fidanzato da sogno un momento prima e un uomo egocentrico quello dopo (cosa che praticamente vale per tutti gli artisti maschi tormentati quando hanno vent’anni). It’s Never Over si snoda attraverso la libertà che Jeff ha provato durante quel periodo di esplorazione, vivendo in una scena creativamente fertile, così come l’ormai famigerato periodo di Sin-é e come la sua prima esibizione di Mojo Pin lo abbia trasformato in una preda per gli A&R. Firmò con la Columbia perché sul muro c’erano foto di Dylan, Miles, Monk e Nina e lui voleva essere al loro fianco. Buckley si preoccupò di mettere insieme abbastanza canzoni per ripagare la fiducia che i dirigenti della casa discografica avevano riposto in lui al momento della firma. Stava già iniziando a soffrire per la pressione di dover essere all’altezza del suo successo, cosa che Buckley avrebbe affrontato anche quando è stato evidente che era in grado di mantenere la promessa. Nonostante ciò, il sensibile cantautore diede gli ultimi ritocchi al suo album di debutto, anche dopo aver discusso con i dirigenti per una copertina dell’album che lo faceva sembrare un incrocio tra un cantante di lounge louche e un ragazzo immagine dei New Romantic. Sapete cosa succede dopo.
Forse non c’è titolo più appropriato che Buckley avrebbe potuto dare a Grace, anche se It’s Never Over chiarisce che non ha sempre applicato quel concetto nel modo in cui ha gestito la fama che è arrivata con quel disco. Il documentario fa un ottimo lavoro nel ricordare che Buckley poteva essere sia dolorosamente pretenzioso (“Le canzoni sono poesie, e le poesie nascono dai sogni”) che disinvoltamente lirico nelle conversazioni, per non parlare della sua cattiveria. “Cosa hai ereditato da tuo padre?”, gli chiede uno sfortunato intervistatore. “Le persone che si ricordano di mio padre”, ribatte lui. “Prossima domanda”. Aimee Mann ricorda che lui le ha lanciato allusioni grandi come un macigno sul fatto che volesse andare a letto con lei, ma la “sensazione di liquidità e assenza di confini” che ha percepito immediatamente le è sembrata un po’ troppo “da onda anomala” per cedere. Wasser, la cui band, i Dambuilders, è stata in tournée con Buckley, ricorda che lui è rimasto in piedi di fronte a lei per tutta la durata del loro concerto e l’ha fissata, emanando l’“adorazione di una dea” che le è sembrata troppo impegnativa. Poi ha cantato la sua cover di Lilac Wine di Nina Simone e, secondo Wasser, sono crollate le mura di Gerico.
Questo, insieme al fatto che Buckley ebbe quello che i suoi amici definirono un crollo psicotico mentre progettava il seguito di Grace, è quanto di più negativo il documentario osi fare. Non viene sminuito “Dark Jeff”, i suoi sentimenti conflittuali nei confronti del padre o della sua infanzia, né il fatto che il dono creativo che possedeva potesse sembrare un peso quanto una benedizione. Ma il film privilegia la celebrazione rispetto all’orazione funebre; non vuole seppellire Buckley o mettere la parola fine (vedi titolo), ma lodarlo. Lodarlo e piangerlo. Berg ha già visitato questo territori, in termini di film post-mortem che riconoscono le ombre dietro i grandi artisti e accentuando al contempo il loro positivo, con il suo film del 2015 Janis: Little Girl Blue. Solo che in quel caso si trattava di Joplin, la cui vita era già stata esaminata da decenni. Buckley non ha avuto un milione di ritratti a lui dedicati, tanto meno in questo modo. La singolarità di It’s Never Over, insieme ai tanti materiali e alla sua sincerità, è il suo vero pregio. Non si fissa sulla sua morte, né scava troppo a fondo in possibili teorie diverse da quella accidentale. Ma non cerca nemmeno di essere inutilmente macabro, e preferisce privilegiare il ricordo della sua vita piuttosto che la rilettura della sua fine.
(A proposito di quest’ultima parte: Bowen fa notare nel documentario che un articolo di Rolling Stone sulla morte di Buckley era sembrato inutilmente sensazionalistico, oltre a non aver menzionato che Buckley aveva solo una birra in corpo e nessuna traccia di narcotici. Vi preghiamo di accettare le nostre scuse tardive).
L’atmosfera che si respirava al Ray Theater quando It’s Never Over, Jeff Buckley è stato presentato in anteprima al Sundance era certamente più simile a una festa che a una veglia funebre, e c’era molto amore in sala. Poi, proprio mentre scorrevano i titoli di coda, alcuni volontari hanno iniziato a sistemare un tappeto, una sedia e un amplificatore sotto lo schermo. Durante il film, Ben Harper, amico di Buckley, ha raccontato che la particolare interpretazione di Jeff di Hallelujah di Leonard Cohen lo distingueva dalla solita figura del bel ragazzo che spacca. Si trattava di una testimonianza soul che si spingeva veramente nel mistico.
All’improvviso, Harper è uscito dalle quinte, con la lap guitar in mano, e si è seduto di fronte allo schermo. Ha raccontato di aver incontrato Cohen e di avergli chiesto della cover di Jeff. L’anziano signore gli ha afferrato il braccio, ha detto Harper, e con ammirazione ha detto: “Wow!”. Poi Harper ha suonato la sua versione di Hallelujah, che prende in prestito l’essenzialità di Buckley ma non cerca di imitare la versione dell’amico. Le lacrime scorrevano a fiumi. La sala era silenziosissima. Poi, quando ha finito, è scoppiata in un applauso fragoroso. È stato il finale perfetto. Un momento che avremmo voluto non finisse mai.