Non avevamo idea che John Wick sarebbe stato l’inizio di un amore. Nemmeno un sentore, un suggerimento, un piccolissimo indizio.
Nessuno avrebbe potuto prevedere che un film con il titolo preso dal nome del suo personaggio principale (chi è John Wick? Perché dovremmo preoccuparcene?), interpretato da un attore che era stato fuori dal radar del pubblico per un po’, sarebbe diventato la sintesi di un decennio di cinema di genere e avrebbe rivoluzionato i film d’azione americani. Keanu Reeves sembrava ancora in forma, indossava ancora quegli abiti slim neri alla grande, utilizzava ancora il suo caratteristico mono-tono per suggerire soggezione da stoner e/o minaccia. Ma qui c’era il posterboy degli anni ’90 che si avvicinava ai suoi 50 anni, interpretando un sicario che viene trascinato di nuovo in quel tipo di vita un’ultima volta e costretto a usare le sue abilità in nome della vendetta. Il fattore scatenante: i cattivi hanno ucciso il suo cucciolo.
La domanda non era “Sarà un buon film?”, ma piuttosto “Aspetta, che anno è?”, o forse “Come fa a non uscire direttamente in home video?”. Nessuno pensava agli universi cinematografici, alle carriere rianimate o al business dell’hospitality dedicato esclusivamente ai sicari. Ne sapevamo davvero poco.
Nove anni, tre gloriosi capitoli e un ruolo iconico dopo, la saga del più grande assassino del mondo che combatte contro altri trafficanti di morte, boss ed eccentrici tizi del sindacato criminale si è affermata come il franchise cinematografico più affidabile dopo Mission: Impossible. Come quei blockbuster, i film di Wick vivono o muoiono in base alla presenza, al carisma e all’etica lavorativa di una singola star (anche se Reeves non condivide l’amore per l’entertainment mortale dell’idolo che alimenta i film di M:I). E, dato altrettanto importante, si basano sullo stesso senso palpabile di vera azione fisica eseguita da persone reali. Siamo sempre consapevoli del fatto che le sequenze de botte, le sparatorie, i combattimenti corpo a corpo, le scene di inseguimento e gli assalti pieni di stunt sono il risultato di sangue, sudore e lacrime autentici. Ci sono effetti speciali nei film di Wick, certo, ma il caotico circo a tre piste dei film favorisce sempre la coreografia rispetto ai computer. Sono le cose più vicine ai musical che abbiamo oggi: meno balletti di proiettili che stravaganze balistiche di Busby Berkeley.
La quarta volta è di rado, se non praticamente mai, quella fortunata, e dato il modo in cui ogni film ha alzato la posta, John Wick 4 – il nuovo e probabilmente ultimo capitolo – deve sopportare il peso delle aspettative. La logica impone che una nuova avventura debba essere “di più”, ancora più spettacolare, ancora più forte. Deve essere più Wick di Wick. È una sorta di trappola, e mentre il nostro Baba Yaga vestito in modo impeccabile è vittima di imboscate e trabocchetti, i cineasti evitano la tentazione di sovradimensionare tutto a scapito delle scariche di adrenalina artigianali e della tradizione dei personaggi. Sì, il film dura poco meno di tre ore, e ci sono diverse scene (un lungo attacco a un hotel di Tokyo, un tutti contro tutti nel traffico intorno all’Arco di Trionfo) che reggono il confronto con i frammenti di caos meticolosamente assemblati migliori della saga. Se pensate che il quarto capitolo sia a corto di ambizione e portata, tenete presente che piazza uno dei pezzi più epici di sempre nei suoi primi 10 minuti.
Eppure la storia è ancora incentrata sulla narrazione Pulp 101 di un uomo apparentemente indistruttibile che combatte per tornare alla libertà, al diavolo gli ostacoli e le deviazioni. Il regista (fedelissimo del franchise) Chad Stahelski, lo sceneggiatore Derek Kolstad e Reeves ora ne hanno fatto una scienza, e sanno che possono buttare la qualunque su quello che essenzialmente è uno studio del personaggio in stile Zen. John uccide, quindi è. Guardate John che uccide. Corri, John, corri. La caratteristica principale del protagonista è in parte il motivo per cui il ruolo è l’ideale per l’espressività minimal di Reeves, anche quando prende tutti a calci nel culo. Togliete il rumore e la furia e, grazie a lui, avrete ancora slancio. L’attore è la calma fatta persona al centro della carneficina. Probabilmente non è una coincidenza che questa specie di canto del cigno si apra su una mano insanguinata che prende a pugni una borsa e finisca con un duello vecchio stile.
Il gentiluomo responsabile di quel tête-à-tête con le pistole all’alba è noto come il Marchese (Bill Skarsgård), un aristocratico francese part-time e sadico a tempo pieno che vuole prendere il controllo della Gran Tavola, ovvero il consiglio segreto che governa il mondo sotterraneo internazionale. La sua prima mossa è inviare un messaggio punendo Winston (Ian McShane), il manager del New York Continental, per aver aiutato lo scomunicato Wick. Non importa che il capo dell’hotel abbia sparato al suo amico dal tetto dell’albergo a cinque stelle alla fine del terzo capitolo; il Marchese ha ancora intenzione di demolire l’edificio, con orrore di Winston e del suo portiere. (Quest’ultimo ruolo è interpretato ancora una volta da Lance Reddick, che aggiunge un ulteriore livello di pathos alla storia, R.I.P.) Il suo prossimo piano è riscuotere un favore da Caine (la divinità delle arti marziali Donnie Yen), un assassino cieco in pensione e vecchio amico di Wick, per uccidere il fuggitivo.
Intanto Wick è ancora in fuga e sta cercando di evitare un esercito di assassini mercenari che cercano di riscuotere la taglia su di lui, in particolare un inseguitore senza nome (Shamier Anderson) che, come John, è un amante dei cani. Si unisce a un gruppo di alleati e nemici che entrano ed escono dall’orbita di Wick, tra cui il Bowery King (Laurence Fishburne), il pezzo grosso del Tokyo Continental (Hiroyuki Sanada), sua figlia (la popstar Rina Sawayama), il massiccio scagnozzo del Marchese (Marko Zaror), una matriarca criminale (Natalia Tena di Game of Thrones), un araldo della Gran Tavola (Clancy Brown) e un corpulento über-criminale tedesco (Scott Adkins) che è uno squalo delle carte e, sorprendentemente, è pure forte nel Taekwondo.
Visto che è un film di John Wick, ci si aspetta almeno un lungo combattimento in un edificio pieno di vetri e una resa dei conti in un nightclub esotico illuminato al neon. Puntualmente nel capitolo 4 ci sono entrambi, senza cercare di reinventare per forza: Stahelski e il suo team si assicurano solo che ci sia un sacco di materiale all’altezza. Il riff personalizzato di Donnie Yen su Zatoichi brilla da solista in diverse occasioni, e la star sfrutta al meglio una tecnologia ingegnosa di campanelli elettronici. Ogni stuntman impiegato qui dovrebbe ricevere un bonus, e Reeves non solo ha continuato ad allenarsi, ma ha acquisito nuove abilità: chi sapeva che fosse così bravo con il nunchaku? La sequenza dell’inseguimento che termina con corpi umani contro auto in corsa a Parigi è talmente pazzesca che quasi non ci interessa il dj narratore dalla voce vellutata che offusca il confine tra l’omaggio e la scopiazzatura di The Warriors. C’è una scena geniale con una scala di 222 gradini che pare tratta da una commedia muta, puoi praticamente sentire Buster Keaton che applaude dall’aldilà.
Fare semplicemente un inventario del meglio di John Wick 4 non rende giustizia al modo in cui tutti coloro che sono coinvolti in questo capitolo finale mantengono alto lo standard che ha reso il franchise così pazzamente figo. O, per lo meno, pura manna per quelli di noi a cui piace che l’azione sullo schermo espliciti davvero quel “motion” di motion picture, come se le persone dietro le quinte fossero orgogliose di costruire queste sequenze elettrizzanti con professionalità e fantasia. Anche la sua vena conservatrice (qualche altro franchise d’azione è stato così ossessionato da regole, tradizioni, statuti, linee di sangue, codici di condotta?) e la risaputa aria da duro sono ancora più modernamente rétro dopo quattro uscite.
Potreste essere leggermente esausti quando si arriva tra i pezzi grossi del gioco, dove un modo anacronistico di regolare i conti da uomo a uomo si trasforma in qualcosa di spiritoso, intelligente ed eccitante come un massacro destroy-all-mobsters in una discoteca europea gotica o in una kasbah nel deserto. In altre parole, atterraggio in piedi. E non è un’impresa da poco. Così come non lo è girare una tetralogia senza anelli deboli, senza inciampare nella mitologia del tuo universo o farti ripensare completamente alle tue nozioni su ciò che potrebbero fare certe star del cinema. Siamo entrati in questa saga solleticati dall’elemento sorpresa, e lasciamo il quarto capitolo pienamente soddisfatti. Com’è stato bello rivederla, signor Wick.