Ricordo la prima volta che vidi i dinosauri sul grande schermo come se fosse ieri. Avevo 11 anni, mi ero appena seduto in sala con un grande secchiello di popcorn e una Coca-Cola, ed ero gasatissimo. Mi ero fiondato a prendere uno dei posti migliori, proprio al centro, e appena ho visto il primo brachiosauro comparire sullo schermo e John Hammond che pronunciava le celebri parole “Benvenuti a Jurassic Park”, la mascella mi è cascata per terra ancor più che al dottor Grant. Mio. Dio. Avevo 11 anni e ho pensato: e se i dinosauri potessero essere reali per davvero?
In trent’anni, ho visto tantissime cose predette dalla fantascienza diventare realtà: le stampanti 3D immaginate per la prima volta in Star Trek; le moto volanti anticipate da Star Wars; le videocall inventate dai Pronipoti. E ora io, con la collaborazione del dottor George Church di Harvard e centinaia di scienziati della Colossal, sto per assistere alla resurrezione degli animali estinti che – iniziate a canticchiare voi la musichetta del film – avevamo visto in Jurassic Park.
Quando ho detto per la prima volta al mio avvocato che ero interessato a lanciare la Colossal e a riportare in vita i mammut, lui mi ha chiesto se avessi letto il romanzo di Michael Crichton o visto il film di Steven Spielberg. Dopo quella volta, quella domanda è riemersa in qualsiasi incontro con ogni tipo di investitore, giornalista o avvocato. Ho passato moltissimi anni a pensare se avremmo dovuto riportare in vita gli animali estinti, prima di capire che avremmo potuto (grazie, dottor Ian Malcolm). Ancora prima di mettere piede in un laboratorio, ho passato tantissimi anni e infinite ore a riflettere sulla questione morale al cuore di questa visione.
E, ogni anno che passava, ho guardato, ascoltato e scoperto che molti animali stanno morendo a causa del cambiamento climatico, l’estinzione della nostra epoca. Sono arrivato alla conclusione che la domanda non è più se dobbiamo cimentarci nella scienza della de-estinzione, ma quanto tempo ci vorrà per attuarla nel modo giusto. Per il 2050 avremo perso circa la metà della biodiversità globale. Ciò include le piante e gli animali che creano gli ecosistemi necessari alla produzione di cibo e carbone, e alla stabilità dell’ecosistema generale. Ciò significa anche che la spaventosa visione rispetto al prossimo futuro non è quella in cui i dinosauri fuggono da Isla Nublar e conquistano la terraferma mettendo a rischio la salute del pianeta, ma piuttosto uno scenario in cui non ci sono abbastanza animali rimasti per supportare la produzione di cibo e la creazione di nuovi ecosistemi. E questo include anche gli esseri umani. Come dice il Ray Arnold di Samuel L. Jackson, “paretevi il culo”, perché il futuro sarà davvero durissimo.
Ma noi pensiamo che sia possibile salvaguardare, se non addirittura arrestare, questa visione fatalista del futuro usando proprio un approccio simile a quello adottato nel film originale, con qualche debita variazione. Tutto ci riporta alla genetica, e a molto di quello che ho imparato quando ho incontrato George per la prima volta.
La prima volta che ho parlato con il dottor Church, un professore di Harvard alto e smilzo che poi sarebbe diventato il co-fondatore della nostra società, gli ho chiesto se pensasse davvero che la de-estinzione fosse possibile. Lui ha risposto che pensava non solo che fosse possibile, ma che lo sforzo per studiarla avrebbe prodotto tecnologie avanzate che avrebbero avuto un impatto enorme sulla conservazione degli animali. Dopo un po’ di incontri ho concordato anch’io con lui, e mi sono entusiasmato all’idea che non solo sarebbe stato possibile de-estinguere gli animali, ma anche che ci saremmo trovati di fronte a nuove scoperte scientifiche. Come è successo con gli auricolari wireless, i led, i mouse del computer e le coperte termiche – tutti prodotti nati “accidentalmente” dagli studi per portare l’uomo sulla Luna – così le ricerche sulla de-estinzione avrebbero portato a nuovi orizzonti riguardo sia alla conservazione che alla salute dell’uomo.
Nei primi anni di lavoro con Colossal, anche solo gli studi sul mammut hanno accelerato la ricerca genetica sugli elefanti e la cura di un virus che ogni anno uccide il 25% degli elefanti appena nati in tutto il mondo. La “cassetta degli attrezzi” della de-estinzione ha anche stabilito un backup genetico per tutte le specie di elefanti viventi, e ha contribuito a trovare gli strumenti per la gestazione (e l’eventuale clonazione) degli elefanti stessi.
E ora, a differenza del dottor Hammond, che aveva comprato un’isola e nascosto i suoi esperimenti agli occhi del mondo, i governi stanno iniziando a chiederci di aiutarli per salvare le specie in pericolo. Sappiamo che “la vita trova il suo corso” (grazie ancora, dottor Malcolm), ma vogliamo che sia il migliore possibile, in uno scenario di cambiamento climatico fortemente accelerato dall’essere umano.
Tuttavia, il nostro lavoro va in un’altra direzione rispetto a quello della storia di Jurassic Park per quanto riguarda molti aspetti prettamente scientifici, cosa che, immagino, molti fan troveranno interessante. Per prima cosa, lasciatemi dire che non puoi ottenere il Dna dall’ambra. Fidatevi. È un materiale poroso e non preserva in modo efficace le tracce di Dna. Ma si possono ottenere campioni di Dna di specie risalenti al tempo della glaciazione nel permafrost, e anche di scheletri che si sono conservati bene nelle caverne e persino nei musei, come il tilacino (una rara specie di canide, ndt), trovato perfettamente conservato in un museo grazie all’uso di etanolo.
Seconda cosa: noi non aggiungiamo Dna di rana a quello dei dinosauri, per riportarlo in vita. Se mai, prendiamo quel Dna “spezzato”, lo mettiamo a confronto con il genoma di altre specie viventi e modifichiamo il genoma di una specie vivente che è già completo. Per esempio, per creare quello del mammut, modifichiamo i geni dell’elefante asiatico con quelli del mammut che rappresentano la sua capacità di adattarsi al freddo. Tutto questo si basa sul lavoro che il dottor Church porta avanti da oltre quarant’anni. È stato uno dei pionieri in questo campo, e la sua influenza è stata così rilevante che una derivazione della prima sequenza genetica alla quale ha lavorato con il dottor Greg Sutcliffe è stata citata nel primo Jurassic Park.
Terza cosa: per i superfan all’ascolto, la dipendenza alla lisina come modo per far rimanere i dinosauri sull’isola non funziona davvero. Tutti gli animali sono già dipendenti dalla lisina, perché quasi tutti i cibi la contengono. Perciò quest’idea ha sollevato più di un dubbio. In uno studio del 2015 pubblicato dal dottor Church e dal suo team a Harvard, si scopre che una dipendenza più sensata è quella che vede coinvolto un amminoacido di nome bipA, che non viene trovato in nessun cibo. Non vogliamo creare nessuna dipendenza negli animali che vogliamo de-estinguere. Stiamo invece lavorando per aiutare a ripopolare le specie che saranno in grado di sopravvivere da sole, ma è importante notare che la scienza ci aiuta a fare sempre meglio, a rendere i problemi del passato sempre meno replicabili, oggi e in futuro.
Mi sorprende pensare che Jurassic Park abbia trent’anni, perché la storia mantiene la stessa forza ancora oggi. Quando ho rivisto il film di recente a casa, con una ciotola di popcorn fatti al microonde e un margarita, sono ancora rimasto a bocca aperta di fronte a tutto quello che Steven Spielberg ha creato. Quando il dottor Sattler e il dottor Grant si avvicinano al triceratopo malato, ho provato la stessa tristezza. E quando i velociraptor attaccano il quartier generale del parco, ho avvertito la stessa paura. Anche se sapevo già benissimo come quella storia sarebbe finita.