A 81 anni (quasi: li compie il 17 novembre), Martin Scorsese è ancora un appassionato animatore – e, inconsapevolmente o forse no, agitatore – della conversazione, come si dice oggi, che scuote il cinema, la sua industria, la sua evoluzione. La difesa di un’idea di cinema classico contro la marvellizzazione (in realtà messa ampiamente in crisi, specialmente in quest’annata Barbienheimer) dell’audiovisivo globale; la capacità di salvaguardare la fantomatica “esperienza della sala” e al contempo aprirsi ai nuovi attori del mercato (il precedente The Irishman e la docuserie su Fran Lebowitz Pretend It’s a City erano prodotti, com’è noto, da Netflix; il film di cui ora scrivo da Apple TV+); la compresenza, nella sua opera e nella sua persona, del classico e del contemporaneo, del Cinema (stavolta maiuscolo) e dei meme su Instagram. Questo è Scorsese oggi, forse lo è sempre stato: canone e innovazione in lui convivono da sempre.
Il suo discorso è politico, che lo voglia o no. E a 81 anni (quasi), Scorsese con Killers of the Flower Moon, in sala dal 19 ottobre, va al cuore della vergogna nazionale (la cancellazione di un popolo nativo da parte del capitalismo bianco) per fare un inevitabile regolamento di conti con la Storia e con sé stesso. Tanto che – minuscolo spoiler – nel finale si mette in scena proprio lui in persona, come narratore ultimo di questo film che scopriamo essere una sorta di podcast divulgativo ante litteram (scusami, Marty).
Per fortuna senza infografiche, ma con l’Altissimo del suo cinema, qui forse anche in cerca di sperimentazione, come se ne avesse ancora bisogno: nel montaggio della consueta maestra Thelma Schoonmaker, i campi lunghissimi obbligatori per chi racconta quella che è, a suo modo, la Frontiera (e questo è, a conti fatti, il primo non-western di Scorsese) vanno insieme ai piani strettissimi sulle facce che quella terra la abitano.
Ma il vero regolamento di conti Scorsese lo fa con lo sguardo, il suo e il nostro. I nativi americani al centro di Killers of the Flower Moon, quelli che popolano la Osage Nation, non sono coloro che i libri di scuola – e il cinema – ci hanno sempre raccontato, i poveri oppressi spazzati via per ignoranza, ingenuità, debolezza. I nativi americani di questa storia (e della Storia, se fosse andata diversamente) sono ricchi e consapevoli del loro potere; i bianchi, al principio del racconto, sono i loro servitori, chaperon, facchini. È una Storia all’incontrario che rimette tutto in discussione, in un Paese che al cuore resta spietatamente razzista.
E la vera protagonista (la Mollie di Lily Gladstone, per molti analisti prossimo Oscar come miglior attrice), con le sue adorabili copertine sulle spalle, non è la squaw alla Soldato blu, ma la donna che avrebbe scritto un’altra Storia (aridaje) se non avesse ceduto all’handsome devil di Leonardo DiCaprio: ma per troppa fiducia, più che per debolezza. Qualcuno in fondo doveva pur credere alla fiaba degli Stati, e dei popoli, Uniti, per accorgersi poi che si sarebbe disunito tutto.
In questo film che è un giallo, un mélo, un dramma storico, un legal thriller e – soprattutto – l’indagine forse definitiva sulla nascita di una nazione, genere a sé del cinema USA, l’81enne (quasi) Scorsese regola i conti anche con tutto il suo cinema. Killers of the Flower Moon è un’età dell’innocenza infranta, un racconto di goodfellas e di gangs, un teatro di infiltrati, con una (ultima) tentazione di spiritualità e natura eternamente profanata e il colore (nero) dei soldi che trasforma anche i più apparentemente candidi, vedi l’Ernest Burkhart di DiCaprio, in tassisti scatenati – il personaggio è, del resto, un autista.
Nel fare i conti col suo cinema, Scorsese dirige per la prima volta sul grande schermo i due feticci della sua opera: Robert De Niro che, in un filo che lega Taxi Driver a Quei bravi ragazzi a Cape Fear a The Irishman, resta l’essere diabolico che inizia al male, ma che dal male viene travolto; e Leonardo DiCaprio, l’anima fatalmente buona che si ritrova per destino avverso a scoprire il lato di sé più corrotto o corruttibile, in quel suo eterno romanzo di (de)formazione che va da Gangs of New York a Shutter Island.
Nel discorso che fa sul cinema suo e pure, dicevo all’inizio, sulla forma elastica e in progress che sta vivendo quest’arte oggi, Scorsese chiede allo spettatore inebetito da TikTok di passare 3 ore e 26 minuti in sala. E questo, in fin dei conti, è probabilmente l’atto più politico di tutti.