In italiano non rende l’idea, ma in inglese, accidenti, sì. Lo senti da come striscia la “erre”, dalla durezza della “g”: greed. Come le unghie sul vetro, il gesso che stride sulla lavagna, le formiche in cucina. Killers of the Flower Moon è quella cosa lì: la grande, oscura, amarissima, tragedia dell’avidità. A 80 anni compiuti, Martin Scorsese, capo tribù del popolo del cinema, venerato sciamano di una nazione che esiste solo sullo schermo, dissotterra l’ascia di guerra: e riscrive daccapo l’epica americana restituendo la dignità del ricordo a chi ha prima subìto l’offesa e poi l’ha vista trasformarsi in oblio. Disarcionando l’uomo bianco dalle sue poco nobili certezze, per trasformare in epopea la grande truffa di visi pallidi, figli del dio dollaro, lingue biforcute.
Ma se è fortissimo e sincero l’impegno civile del regista italo-americano nel rievocare e riportare alla luce la parabola degli indiani Osage che, milionari dopo avere trovato il petrolio nella inospitale riserva in cui li avevano costretti, diventarono il facile bersaglio di troppi, venendo raggirati e assassinati uno dopo l’altro, Scorsese va molto al di là della semplice denuncia, facendo del romanzo criminale che ha tratto dal libro di David Grann una grande, emblematica, storia americana. Che racconta alla sua maniera, con i movimenti ampi del grande vecchio cinema, in un film, implacabile e risoluto, dove tutto, sin dalla prima sequenza, è rito, messa (in scena), liturgia, nel rispetto della sacralità di un impari scontro tra civiltà che soffoca il riscatto dei nativi davanti alla spietata avanzata del capitalismo wasp.
Sospeso in un tempo di passaggio, mentre le automobili stanno prendendo il posto di carrozze e cavalli (siamo negli anni ’20) e l’America cambia per non cambiare mai, il regista che vinse a Cannes con Taxi Driver, cambiando di fatto la sintassi del cinema, torna sulla Croisette fuori concorso con un western moderno cinico e spietato dove concetti come sangue e razza, centrali nel film, evocano spettri sinistri anche negli sgualciti giorni nostri. Magistrale, per sicurezza ed efficacia, nelle scene di massa così come nell’intimità della tragedia familiare, Scorsese dirige una ballata per avvoltoi facendo del genocidio del popolo del cielo (che chiamava il fuoco padre e la luna madre) l’ennesimo orrore della nascita di una nazione in cui fatica sempre di più a riconoscersi.
Meno magniloquente e “definitivo” di The Irishman, il film, che si adagia sul costante e tribale tappeto musicale di Robbie Robertson (vecchio amico del regista dai tempi di The Band) che privilegia il suono dilatato della chitarra acustica (e, quando è necessario, dei tamburi di guerra), è comunque molto riuscito, forte, appassionante (le oltre tre ore di durata volano senza che te ne accorga): un affresco in cui il regista di Toro scatenato si permette anche finezze clamorose, come la scelta di trasformare le fredde dididascalie di “quello che è successo dopo” in un melodramma radiofonico dove si regala un inaspettato (ma ai fini della pellicola decisivo) cameo.
The artist is present, così come la sua rock band: non solo i collaboratori di sempre, ma anche i figli prediletti, gli attori feticcio – Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, insieme dopo trent’anni – che così straordinariamente bravi non li ricordavamo da un po’. Anche se la vera sorpresa del film (che uscirà in tutte le sale del mondo il 18 ottobre), in realtà, è la nativa Lily Gladstone, la protagonista femminile: destinata a essere schiacciata dai due mostri sacri, gli tiene testa per tutta la pellicola sussurrando in lingua indiana l’oltraggio di un’offesa mai dimenticata.