«Il cinematografo, come credo qualunque altra forma di attività, esige un amore totale, insomma non si può stare nel cinema a metà, il cinematografo è una dimensione che ti assorbe completamente, devi proprio esserne cittadino ventiquattro ore su ventiquattro». Lo dice Federico Fellini in un documentario su Ennio Flaiano, e basterebbe questo a definire La bella confusione, a trovare il nodo esatto del libro (Einaudi) che Francesco Piccolo dedica ai destini incrociati di 8½ e Il Gattopardo, di Fellini e Visconti, di Claudia Cardinale sdoppiata tra i due set, e quei due set pieni di splendide coincidenze, come se il cinema – e quelle due vite – fossero un testo zeppo di rimandi intra ed extra, depistaggi, ripescaggi, impennate e intoppi che ne hanno fatto, per merito ma anche, appunto, per destino, due fra i più importanti film di sempre.
Ma La bella confusione, che fu uno dei titoli di lavorazione di 8½, è, oltre che biografia del cinema e dei suoi abitanti, un’altra delle autobiografie di Piccolo, e lì appunto sta l’altro nodo, nel farsi assorbire, come il cinema richiede, ventiquattr’ore su ventiquattro, e quell’atto anch’esso diventa destino, e occupazione costante, e motivazione unica e ultima, e vita a cui non ci si può sottrarre mai, perché la si vive soltanto facendola.
L’autobiografia, che è la spina di tutta l’opera di Piccolo (anche, in fondo, di quella come sceneggiatore per il cinema e la tv), è qualcosa in cui s’incappa incredibilmente per caso, pare dirci La bella confusione. 8½ è (anche) la storia della crisi di Fellini dopo lo spropositato esito della Dolce vita, crisi che avrebbe potuto lasciarlo in stallo per sempre e che invece l’ha portato a confezionare un altro capolavoro; ma 8½ è una vera/falsa autobiografia che s’è costruita anch’essa strada facendo, non era previsto da subito che il Guido di Mastroianni fosse un regista, lo è diventato col tempo, di stesura in stesura, anzi di imbastitura in imbastitura – è diventato Fellini.
Pure Il Gattopardo, azzarda brillantemente Piccolo, è stato il making of di un’autobiografia, quella di Visconti. Il regista che si avvicinò al romanzo di Tomasi di Lampedusa per riscattarlo agli occhi degli amici comunisti (leggetelo nel libro, è più bello di come ve lo potrei sintetizzare io) e che, da storia politica, ne fece invece discorso intimo, personale, proustiano.
E dunque per traslazione, proiezione e mitomania – del resto viviamo in tempi in cui tutti pensano e vogliono fare autofiction, e l’autofiction è l’esatto contrario dell’autobiografia che si fa perché inciampa in qualcos’altro, perché permette di vedere la propria vita riflessa da uno specchio che non è quello in cui ti guardi da solo – La bella confusione diventa autobiografia di tutti noi che dal cinema ci facciamo assorbire completamente. Per passione, bisogno, follia. E pure se sappiamo benissimo che quelle stagioni sono rimaste e rimarranno irripetibili – il 1963 in cui uscirono contemporaneamente 8½ e Il Gattopardo; ma io penso sempre anche al 1960, l’anno della Dolce vita e di Rocco e i suoi fratelli (ancora Fellini e Visconti), ma anche dell’Avventura di Antonioni, tutti insieme.
Anche il cinema, dice La bella confusione, si fa facendolo. “Sta scoppiando una battaglia!”, si propose di far urlare a un bambino all’inizio del Gattopardo per non girare la costosissima scena della battaglia di Palermo (“Non lo famo ma lo dimo”: Boris non ha inventato niente). Ma non poteva succedere se a girare era Visconti, uno che metteva la biancheria vera dentro i cassetti anche se quei cassetti lo spettatore non li avrebbe mai visti aperti. E allora ecco la battaglia, ecco il ballo. E così accadeva con Fellini, l’amico-nemico che pensava ai finali e poi li cestinava, e girava tutt’altro (vedi la passerella improvvisata di 8½).
(Non c’entra ma c’entra: Gentiluomo in mare di Herbert Clyde Lewis, delizioso romanzetto del 1937 da poco pubblicato da Adelphi, è la storia di un uomo che si perde, letteralmente, in mezzo al Pacifico; ma come il Guido di 8½, anche lui s’era perso ben prima, e lo capirà a suo modo, in chiave però drammatica, in un finale che è la passerella su cui sfilano le persone della sua vita, la mamma, la moglie, tutti quanti. Viene in mente un’altra battuta del film di Fellini, che avrebbe potuto portare il film stesso verso un’altra direzione, quella del romanzo di Lewis: “Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione”.)
Il cinema, dunque, come confusione bellissima, e come atto di vita, certamente di poesia, ma soprattutto di lavoro. Magnifica Claudia Cardinale, contesa dai due maestri, e pure Sandra Milo, che da amante del finto Fellini, cioè Mastroianni, dal set di 8½ ne uscirà da amante del vero Federico. Due dive assolute, Claudia e Sandra, ma diventate dive facendo le impiegate del cinema; due dive la cui memoria, scrive Piccolo, oggi è svanita per caducità o forse di proposito, perché era solo (o principalmente) lavoro, chi lo sapeva che poi sarebbero diventati quei due film.
Oddio, forse qualcuno lo sapeva. Basterebbero i fatterelli rubricati in questo grande romanzo italiano, cosette apparentemente da niente, apparentemente accadute per caso, a dirci che forse qualcuno di loro l’aveva capito sì, che si trovava dentro qualcosa di speciale. Vado a caso: la parrucchiera della Cardinale che, esausta alla fine dei due set (e le due tinte da mettere e togliere), ha un esaurimento nervoso; Alberto Sordi contro Alain Delon per colpa di un’attricetta brasiliana; Lucilla Morlacchi che, presa da eccitazione per essere stata scelta da Visconti, si fa tirare sotto da una macchina; la tela di Guttuso che Visconti e Lancaster si regalano a vicenda; Aldo Moro che (ri)consegna l’Oscar a Fellini; i gommini messi sotto le ruote della macchina con cui Enrico Lucherini incastra gli amanti di Visconti; Flaiano che, per andare a Hollywood, viene sbattuto in classe turistica. Ma anche, fuori contesto (cioè fuori da 8½ e Il Gattopardo): le conchiglie di Castiglioncello in una lettera di Ennio Flaiano a Suso Cecchi D’Amico; Natalia Ginzburg che non riesce a piegare simmetricamente le coperte; «le amicizie frivole finiscono per una frivolezza»; le confessioni sottovoce (ma non abbastanza) di Ettore Scola e Giovanna Ralli; l’alba livida.
«La felicità consiste nel poter dire la verità senza mai far soffrire nessuno». L’ho risentita, pronunciata da Guido/Marcello, l’altro giorno, quando sono andato a rivedere 8½ in un cinema sotto casa (più di cento persone un sabato pomeriggio qualunque). E lì ho capito che tutto – questi film, questo libro – sono atti di verità e di felicità. E anche se quei due film più di qualcheduno l’han fatto soffrire, continuano a fare la nostra felicità. Completamente.