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La ‘Great Freedom’ di Sebastian Meise

Un dramma carcerario (arrivato su MUBI) per raccontare la condizione degli omosessuali tedeschi nel dopoguerra. Che però sembra tristemente parlare al mondo di oggi. Abbiamo incontrato il regista

Foto: MUBI

È arrivato su MUBI Great Freedom, film carcerario che racconta una pagina molto cupa della storia della Germania post nazista e in un certo senso dell’Europa tutta di gran parte del secolo scorso. Hans entra per la prima volta in carcere nel 1947, direttamente dal campo di concentramento. La sua colpa: essere omosessuale, per una legge nazista che la Germania non abrogò per decenni, perpetrando di fatto una vera e propria persecuzione anche negli anni della ricostruzione. Hans entra ed esce di galera perché non riesce a frenare il suo desiderio, quello di essere libero di amare e di essere se stesso. E proprio da prigioniero capirà cosa vuol dire davvero essere liberi.

Presentato a Cannes nel 2021, candidato austriaco agli Oscar nello stesso anno, Great Freedom è diretto da Sebastian Meise, regista austriaco che ha all’attivo due film assolutamente da recuperare: Still Life, opera di finzione che parla di una sconvolgente scoperta all’interno di una famiglia; e Outing, documentario che segue le rivelazioni di un giovane pedofilo. Opere entrambe fuori dagli schemi e che rientrano in un discorso più generale nel cinema austriaco che sarebbe sin troppo lungo da affrontare. Protagonista eccezionale di Great Freedom è Franz Rogowski, che chi visto Freaks Out ricorderà certamente come la cosa migliore del film: era il folle ufficiale tedesco alla ricerca degli X-Men del Quarticciolo. Lo si troverà anche alla Berlinale in un film italiano, l’unico in competizione, Disco Boy di Giacomo Abbruzzese.

Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Sebastian Meise per parlare del film.

La Great Freedom del titolo è la libertà di amare nelle sue forme più diverse, una cosa che può sembrare scontata, ma che non è. Il Paragrafo 175 di cui parla il film è stato cancellato definitivamente in Germania solo nel 1969. Quali ricerche hai fatto sull’argomento per scrivere il film?
Pazzesco, vero? Pur sapendo dell’esistenza del Paragrafo 175, non mi ero mai reso conto della portata delle persecuzioni perpetrate, di quante persone siano state arrestate. Parliamo di oltre 100mila, praticamente essere gay era impossibile in Germania negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale fino al 1969. E nonostante negli anni la consapevolezza di ciò che accadde sia sempre maggiore, comunque parliamo di un pezzo di Storia che è ancora in gran parte sommerso, che non viene insegnato a scuola. Per dire, in Austria il Ministro della Giustizia ha chiesto scusa a tutti quelli segnati da questa legge solo due anni fa.

E si potrebbe pensare che si tratti di un retaggio dei regimi totalitari di quegli anni: leggi simili erano vigenti anche in Italia e in Spagna sotto Mussolini e Franco. Ma non si deve dimenticare che in Gran Bretagna c’era la ben nota Section 11, che fece molte vittime nella comunità omosessuale, e che nel 1988 entrò in vigore la Section 28, che impediva di fatto agli insegnanti anche solo di menzionare l’omosessualità a scuola, una legge abolita solo nel 2003. Insomma, quella di Great Freedom è sotto molti punti di vista una storia assolutamente contemporanea. E decisamente non è una bella cosa.
E in Florida siamo tornati indietro a questo punto, così come da tempo in Ungheria, in Polonia… il conservatorismo sta tornando preminente in tutte le democrazie occidentali, e questo è un problema. Ed è anche la ragione per cui molte persone nella comunità omosessuale sono seriamente preoccupate che la situazione possa ulteriormente peggiorare.

L’amore è un argomento che ti interessa particolarmente, lo hai analizzato nelle sue forme più diverse.
Credo che l’amore proibito sia un argomento assolutamente universale, è sempre esistito ed è un meccanismo narrativo favoloso. Ma in generale mi chiedo: perché si tendono a fare delle differenziazioni? L’amore è amore, la relazione che c’è tra Hans e Victor va oltre qualunque categorizzazione, è solo puro amore tra due persone che hanno una connessione e un sentimento reciproco e che condividono una storia personale. Questo è quello che chiamiamo amore.

Il regista Sebastian Meise sul set. Foto: MUBI

In questo senso Great Freedom può essere considerato un mélo purissimo, figlio del cinema di Douglas Sirk, ma naturalmente c’è anche una forte componente di genere, essendo un prison movie. Quali sono state le tue principali fonti d’ispirazione?
Molte, a partire dal Bacio della donna ragno. Ma devo dirti la verità: tutto quello a cui potevo guardare come potenziale esempio l’ho usato più per evitare di fare cose già viste. Per questo ho cercato di evitare la componente erotica dell’essere in prigione, così come il progressivo deterioramento mentale che hanno molti personaggi omosessuali nel cinema. Il mio interesse era quello di mostrare persone normali che secondo la società sono innamorate della persona sbagliata.

Franz Rogowski e Georg Friedrich sono assolutamente straordinari nei panni di Hans e Viktor. Come mai hai scelto proprio loro?
Non saprei dirtelo consapevolmente. Il casting è un processo importante quanto la scrittura nel cinema; avevo iniziato a fare provini già durante la stesura della sceneggiatura e sono venuti fuori loro. E Franz è un attore straordinario, si è immerso nel ruolo e ha fatto un lavoro importante sul fisico e sul linguaggio del corpo, che per un film ambientato in prigione è molto importante.

Volevo tornare un attimo alla domanda precedente, quella sull’amore nel tuo cinema, perché hai raccontato nei tuoi precedenti film, Still Life e Outing, ma anche nei tuoi cortometraggi, forme molto diverse d’amore, anche malate o perverse per la società, ma che per i tuoi personaggi sono solo un modo diverso di raggiungere quel sentimento.
In realtà credo che il filo che colleghi questi tre film sia il film che parlano di persone avulse alla società, perché i sentimenti che provano, per una ragione o per un’altra, non fanno parte del mondo che li circonda. Ovviamente non faccio alcuna comparazione tra omosessualità e pedofilia, che sia ben chiaro.

Great Freedom è stato il candidato austriaco per la corsa all’Oscar 2022. La cosa non mi sembra averti impressionato più di tanto, ma a parte questo, com’è fare cinema in Austria oggi?
Dici, non sembravo impressionato? Sì, forse hai ragione. Per quanto riguarda il fare cinema in Austria, è una bella situazione. Abbiamo un ottimo sistema di fondi d’investimento e dei cineasti affermati e famosi come Michael Haneke, di cui sono un grande ammiratore, ma anche Ulrich Seidl, e tanti giovani registi, anche sperimentali, molto interessanti. È un movimento stimolante.

Il film ha una struttura narrativa che ricorda molto quella delle moderne serie televisive, con un continuo andare avanti e indietro negli anni. Cosa ti ha spinto a costruirlo così?
Il fatto che in fondo tutta la vita di Hans è una prigione, perché non può essere libero neanche fuori dal carcere. Inizialmente nella sceneggiatura era prevista una storia più convenzionale, con scene prese dalla vita quotidiana di Hans anche fuori di galera, ma alla fine abbiamo capito che il film non avrebbe funzionato nello stesso modo. E da qui nasce la struttura temporale, per dare l’idea che in fondo la vita di Hans è un continuo ripetersi, un loop senza fine da cui non c’è scampo.

Franz Rogowski in una scena del film. Foto: MUBI

Quando Hans scopre che il Paragrafo 175 viene modificato in maniera da renderlo libero sembra quasi deluso, come se avesse perso il nemico contro cui combattere.
Sì, in un certo senso la si può vedere anche così, mi piace che quest’aspetto si presti a molte interpretazioni. Semplicemente, dopo una vita in prigione, non è più in grado di apprezzare la libertà. Oppure il suo gesto finale può essere visto come un atto rivoluzionario, il suo modo di dire che è sempre stato libero e non ha bisogno che sia la società a riconoscerlo come tale. Sono tutte interpretazioni possibili.

Hai girato in un vero carcere dismesso della ex Germania dell’Est. Una situazione molto comoda a livello produttivo, ma anche stimolante dal punto di vista stilistico.
È stata una buona cosa. Naturalmente non era come girare in una vera prigione, ma è stato come lavorare in un parco giochi tutto per noi, in cui avevamo a portata di mano tutto quello di cui avevamo bisogno, ma con delle limitazioni che in uno studio non hai, quelle legate allo spazio, che ci hanno aiutato a sviluppare l’aspetto creativo del linguaggio del film. Non c’era la possibilità di lavorare su molte angolazioni diverse in quello spazio, e quando giri in una cella sei ancora più confinato, ed era perfetto. Così come l’atmosfera nel corso delle riprese, grazie al fatto che eravamo in una location. Certo, non eravamo lì dentro a causa di una sentenza giudiziaria, ma sapevamo di molte storie che erano passate da lì. È stata un’ottima scelta.

Ultima domanda: hai visto Le ali della libertà?
Sì, è un buon film, anche se non mi è mai piaciuto granché, non è certo il mio film preferito nel genere e direi che è stata una delle fonti di “non ispirazione”.

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