Ci sono due modi per parlare di Becoming – La mia storia, il documentario di Nadia Hallgren appena arrivato su Netflix che racconta Michelle Obama partendo dal tour promozionale del suo omonimo libro in 34 città statunitensi. Il primo: fare una recensione come le mille altre che stanno spuntando online, passando in rassegna gli eventi cruciali di un’esistenza decisamente straordinaria. Il secondo, cercare di capire un po’ meglio – attraverso Michelle Obama – quell’immenso, meraviglioso e spesso contraddittorio Paese che sono gli Stati Uniti, e cosa resta (se resta qualcosa) di un Sogno Americano calpestato e bistrattato dall’ottusità dell’attuale Presidente e dalle sue opinabili scelte in materia di politica interna ed estera.
La vita di Michelle poggia le basi sul grande pilastro dell’essenza americana: sbattiti, eccelli in ogni cosa che fai, non dire bugie, lavora sodo, e vedrai che riuscirai a ottenere ciò che vuoi. Gliel’ha inculcato nonno Dandy, uno che era intelligente, in gamba, e che avrebbe potuto mangiare in testa a parecchie persone; ma che, per ragioni sociali e razziali, non era riuscito a frequentare il college. In una società che era ed è ancora profondamente razzista, l’ex First Lady visualizza il suo scopo: non sentirsi mai fuori posto, non sentirsi mai invisibile, dimostrare a chiunque di essere una black woman decisa non tanto a non deludere, quanto letteralmente a travolgere le aspettative altrui. Al liceo l’impiegata dell’orientamento scolastico le dice che non è adatta per la prestigiosissima università di Princeton: «Che faccia tosta! Sono ancora un po’ risentita», ci scherza su oggi. All’epoca, anziché mollare, punta i piedi, studia come una matta e non solo riesce a entrare a Princeton, ma pure alla scuola di legge dell’università di Harvard. Erano gli anni ’80, e lei era una delle poche studentesse afroamericane ad essere ammesse. La guardano con diffidenza, una compagna di stanza chiede di essere trasferita, lei ci rimane male ma non ha tempo per le stronzate, ché non è certo una quitter e non saranno certo delle piccinerie a mandare all’aria i suoi piani.
L’essere black è uno dei temi centrali del documentario – molto più dell’essere una black woman. Appena conosciuto Barack Obama, confessa di non aver voluto frequentarlo, perché uscire con lui sarebbe stato tacky, di cattivo gusto: «I due neri di Harvard», come se fosse un cliché. Michelle insomma non vuole diventare un fenomeno da baraccone, in un momento dominato dalla politica di George Bush Senior e dalla cosiddetta “strategia sudista” inventata da Lee Atwater: «Dal 1968, dopo la svolta dei democratici a favore dei diritti civili dei neri, ci basta che il Sud voti repubblicano e si vince. Ripetiamo “rigore fiscale, tagliare le tasse” e la gente capisce. Nel 1954 dicevamo “dalli al negro!”: ora non si può, dunque evochiamo il razzismo nel subconscio, dicendo “troppi sprechi per le minoranze”, e gli elettori afferanno al volo».
L’amore però alla fine trionfa: Michelle e Barack si sposano, con la stessa Michelle consapevole che lui «era uno tsunami per me, e io non volevo essere solo un’appendice dei suoi sogni». Arrivano i figli, arriva l’amministrazione democratica di Bill Clinton e la carriera politica del marito prende a decollare. La brillante avvocatessa Michelle a un certo punto si ritrova schiacciata, incapace di star dietro a tutto, e ricorre alla terapia di coppia per scoprire un’inconfutabile verità: la sua felicità non può dipendere esclusivamente da Barack, soltanto lei ne può essere l’artefice. E la sua felicità – o, meglio, la sua realizzazione – si concretizza nell’essere la perfetta comprimaria di quel Barack Obama che, nel 2007, decide di raccogliere i cocci di un’America stremata da due guerre, nonché prossima alla crisi finanziaria dei mutui.
«Non so se questo Paese è pronto per un uomo come mio marito. Spero di sì, ma potrebbe non esserlo», confessa alla sua Chief of Staff Melissa Winter. Gli Obama si trasformano sin da subito nella nemesi del Presidente uscente George W. Bush e di sua moglie Laura: colti, affermati, intelligenti, belli, progressisti e (soprattutto) afroamericani. L’America è disillusa, stanca e impaurita, e loro la girano in lungo e in largo «con una campagna basata sulla speranza e sul cambiamento»: Michelle è un’abilissima oratrice, e diventa il bersaglio preferito di una stampa faziosa che mira a demolirla, cavalcando lo stereotipo della donna nera arrabbiata. Lei, che è coriacea fino al midollo, intuisce che per averla vinta deve rinunciare a una fetta di libertà: parlare leggendo un testo anziché a braccio, accantonare i completi firmati in favore di abiti più semplici di designer statunitensi. L’elezione del marito fa sì che entrambi vivano «con la consapevolezza di essere noi stessi una provocazione»: gli Stati Uniti in cui ci ostiniamo a credere – democratici, aperti e inclusivi – li sostengono sulle due coste, ma l’interno e il Sud in particolare li temono, convinti che il Paese stia entrando in una fase post-razziale, dove il colore della pelle non avrebbe più contato nulla.
Ed è stata quella pancia infuriata, frustrata e perennemente alla ricerca di un colpevole a consegnare la Casa Bianca a Donald Trump nel 2016. Forte di un’oppositrice – Hillary Clinton, scelta infelicissima – che non possedeva manco un decimo della forza degli Obama, forte di un astensionismo senza precedenti – («Capisco chi ha votato per Trump», chiarisce Michelle, «Ma chi non ha votato? Ti viene da pensare, “Cavolo, la gente crede che sia un gioco”») –, The Donald siede nello Studio Ovale, e la minaccia che ci resti per altri quattro anni è più che tangibile. I sondaggi sono discordi, ma pare assodato che il consenso attorno al suo operato sia salito. E ciò ci porta alla domanda di fondo: può un documentario totalmente apologetico – non è una critica, bensì un dato di fatto – provare a spostare un minimo la percezione del pubblico, elettori inclusi? Abbiamo ancora bisogno di gente come Michelle Obama che ci racconta la parabola felice dell’American Dream?
Forse, in barba a qualsiasi sentimentalismo, la risposta è sì, ne abbiamo un dannatissimo bisogno, soprattutto adesso. Alzi la mano, d’altronde, chi non s’è commosso nel rivedere le immagini dell’insediamento nel 2008, nell’ascoltare Michelle mentre descrive la sua relazione «basata sulla reciprocità», nel toccare con mano l’affetto che tuttora le persone le dimostrano. Becoming non è il classico, già sentito, messaggione neo-femminista – siamo donne! Possiamo ottenere qualunque cosa vogliamo! –, piuttosto è un invito rivolto a chiunque ad abbandonare la pigrizia, a rimboccarsi le maniche, a essere fautore del proprio destino, a rammentare le proprie origini. «Io sono l’ex First Lady degli Stati Uniti, e allo stesso tempo discendo da una famiglia di schiavi. È importante che questa verità venga ricordata», sottolinea Michelle. Che, nella data conclusiva del tour, rivela a Stephen Colbert pure un cauto ottimismo: «L’energia che c’è in giro è molto più positiva di quello che crediamo. Vorrei che la gente non fosse demoralizzata, perché questo Paese è bello. La gente è buona. La gente è onesta».
C’è del patriottismo, che è ben diverso dal nazionalismo di Trump, c’è il desiderio di non essere divisi e la volontà di nutrire grandi aspettative nei confronti delle nuove generazioni, che per Michelle costituiscono il futuro degli Stati Uniti. Ma c’è anche speranza, la speranza di dodici anni fa che nessuno ha spento nel cuore dell’ex First Lady: «Siamo a un bivio, e a questo punto dobbiamo chiederci: che nazione vogliamo essere?». Tutti noi ci auguriamo che la risposta finale sia esattamente quella che intende lei.