Fin dal primo nel 1937, e cioè Biancaneve e i sette nani, i Classici Disney sono stati quasi sempre dei musical. E in quanto musical spesso, soprattutto quelli del “Rinascimento” anni ’90, contengono almeno un numero musicale trascinante e mozzafiato, uno spettacolo spettacolare in cui, attorno a una canzone irresistibile, si costruiscono sequenze inventive e spericolate accumulando una gag visiva dopo l’altra, accelerando il ritmo, dispiegando tutte le potenzialità creative dell’animazione, e riuscendo a coinvolgere perfino quelli che “no, ma io i musical non li sopporto proprio, guarda, qualsiasi genere va bene, ma i musical proprio no”.
Aspetto ormai sempre con curiosità il momento in cui gli autori di uno degli ormai ineludibili remake live action Disney si devono cimentare con la riproduzione di queste specifiche sequenze. Perché, per il tipo di operazione commerciale che questi remake rappresentano, non ci si può sottrarre: la “promessa” è quella di “rendere reale” la magia del cartoon dell’infanzia, e quindi di ricalcare passo passo, il più fedelmente possibile ma con un’altra tecnica cinematografica, i momenti che hanno reso celebre e amato il classico di partenza. Non puoi dire a uno spettatore di correre a vedere la nuova versione di La bella e la bestia e poi non dargli Stia con noi, o fare un Aladdin senza Un amico come me, o un Re leone senza Hakuna Matata. Non puoi rifare La sirenetta senza rifare In fondo al mar.
Naturalmente i gusti sono gusti e, certo, le sequenze in questione sono realizzate ogni volta con il massimo possibile della cura da parte di registi, animatori (sì, perché la computer grafica è animazione, per quanto dissimulata), artisti degli effetti speciali, e pure dagli attori coinvolti (soprattutto a livello vocale). Ma un vero candelabro che “balla” resta un pezzo di metallo e cera (per quanto in CGI) che si muove; una teiera realistica rimane un oggetto di ceramica con degli occhi disegnati sopra; e dei pesci autentici che si agitano qua e là nell’acqua, per quanto coloratissimi e orchestrati dal regista Rob Marshall in geometrie e simmetrie coreografiche, restano pesci che fluttuano qua e là attorno a una sorridente Ariel/Halle Bailey (la quale, con il suo volto da elfa e gli occhioni spalancati, si rivela più paradossalmente “cartoonesca” di tutto il resto).
Non è un brutto momento, il nuovo In fondo al mar, anche se il regista Rob Marshall, che nasce come coreografo e infatti da sempre dà il meglio di sé nei numeri danzati da esseri umani (da Chicago fino al per nulla disprezzabile Il ritorno di Mary Poppins), non può fare davvero ballare la fauna marina e neppure la sua sirenetta, che ha ovviamente gli arti inferiori inguainati in una coda di pesce (d’altronde Ariel invidia agli umani le gambe anche per poter danzare e saltare). C’è perfino un “problema” di ritmo, se provate a confrontare le due versioni: l’originale è frenetico e continuamente in crescendo, ma la versione “realistica” non sempre riesce a tenere lo stesso passo, perché banalmente muoversi “davvero” sott’acqua è diverso che farlo fare a dei personaggi disegnati. Insomma, ancora una volta, nonostante il budget – e quello di questa nuova Sirenetta è considerevolmente più alto rispetto agli altri remake live action: si parla di 250 milioni di dollari, 50 in più di quanto è costato, per rimanere in territori acquatici, Titanic (e se questa constatazione non vi spezza un pochino il cuore, be’: vi invidio) –, siamo davanti a un’altra copia blanda e (ah ah) annacquata, di cui se va bene ci ritroviamo a dire: be’ dai, tutto sommato poteva andare peggio.
La sospensione dell’incredulità è, almeno fino a un certo livello, una questione soggettiva, ma in casi come questo è evidente che l’attaccamento al “realismo” finisce per lavorare contro: guardando La sirenetta, forse, a un certo punto noterete che gli attori devono muovere incessantemente le mani (è quello che facciamo davvero quando nuotiamo) in un modo un po’ ridicolo, e c’è la possibilità che i capelli ricreati in CGI per spostarsi fluttuando attorno ai volti rivelino impietosamente la propria artificiosità. Le bambine e i bambini che hanno guardato La sirenetta nel 1989 sognavano, proprio al contrario di Ariel, di poter vivere nel meraviglioso universo sottomarino da cui lei proveniva, tra fondali variopinti, fauna e flora affascinanti, una moltitudine di tesori da scoprire… Chissà se succederà anche con questa nuova versione, dove il fondo dell’oceano è “realisticamente” molto più buio e freddo delle spiagge tropicali che lo sovrastano, perfino un po’ spoglio, e quando il direttore della fotografia si ricorda di “accendere la luce” il tutto finisce per assomigliare vagamente a un bell’acquario, per quanto ricco e curato.
Qualche piccolo spettatore desiderava anche avere come amico il tenero pesciolino Flounder, ma chissà se varrà anche per questo suo “fratello” in CGI, drammaticamente simile alla triglia che ci fissa con occhi spenti dal banco del pesce del supermercato. Di certo, se i bimbi d’oggi guarderanno solo questa nuova Sirenetta, non sapranno mai nulla dell’epico scontro tra il granchio Sebastian e il terribile chef del castello (del tutto eliminato), non canteranno mai “le poisson, le poisson!”: cresceranno meno traumatizzati? Bah, difficile, soprattutto se, la sera a cena, si ritroveranno Flounder nel piatto, o se un gabbiano simile in tutto e per tutto al nuovo Scuttle li aggredirà la prossima volta che andranno in spiaggia…
La sirenetta del 1989, un capolavoro della storia del cinema tout court, risollevò da solo le sorti della Disney, che negli anni ’80 versava in cattive acque (pardon). Anche se l’internet abbonda di hot take sul presunto antifemminismo di un’adolescente che rinuncia alla propria voce per inseguire “l’amore” di un tizio intravisto per caso solo per pochi minuti, nel suo contesto Ariel fu davvero rivoluzionaria: con lei la “principessa” diventa motore dell’azione, vera protagonista della propria storia, e apre la strada alle sue eredi moderne, da Belle a Mulan, da Merida a Vaiana, da Elsa a Mirabel (inoltre, il vero conflitto del film non c’entra nulla con la storia d’amore: è una questione padre/figlia, è quel doloroso momento dell’esistenza in cui crescere significa ribellarsi, quel periodo in cui ci si sente incompresi da tutti, soprattutto dalla propria famiglia).
Le innovazioni nell’animazione – che oggi sicuramente appare datata, ma è ancora narrativamente efficacissima – innescarono un decennio e più di sperimentazioni, portando la Disney a sfornare un gioiello dopo l’altro: La bella e la bestia, Aladdin, Il re leone, Pocahontas, Il gobbo di Notre Dame, Mulan, Hercules… Più o meno perfetti, ognuno faceva avanzare un’arte che, in quanto a “produzione di fantasia”, non ha davvero eguali. Le indimenticabili canzoni di Alan Menken e del compianto Howard Ashman rinvigorirono perfino la tradizione del musical animato, rendendolo irrinunciabile per i titoli a venire. Tutto questo (e molto altro) in soli 80 minuti.
La nuova Sirenetta di minuti ne dura 135. Non è del tutto insensato, perché se l’originale ha un difetto sta proprio nell’affrettato terzo atto, che sembra improvvisamente correre all’impazzata verso l’happy end (c’è anche da dire che la vera meraviglia stava nella porzione sottomarina del film: di castelli principeschi e panorami terrestri ne avevamo dopotutto già visti a iosa). Inoltre, gli autori del remake tentano disperatamente di regalare un po’ di spessore a Eric, che come quasi tutti i “principi azzurri” non è esattamente un campione di personalità (è divertente però che gli forniscano quella di Vaiana – la principessa che non vuole governare la sua terra ma prendere il largo in cerca di nuovi mondi e avventure – visto che Oceania è un film per molti aspetti speculare e complementare a La sirenetta). Infine, c’è qualche canzone nuova, scritta dal golden boy Lin-Manuel Miranda, qui però al minimo sindacale (seriamente: Miranda è uno dei migliori compositori contemporanei, basterebbe ascoltare in campo Disney anche solo le colonne sonore di Oceania e Encanto, ma qui mette insieme giusto tre compitini che peraltro non si integrano per nulla col tono dei brani storici. Mah).
Alla fine i veri punti di forza di questa Sirenetta versione live action 2023 stanno proprio nella caratteristica che fa quasi sempre la differenza nei film non animati: le performance degli attori. In particolare quelle di Halle Bailey, che coglie benissimo lo spirito combattivo di Ariel e (almeno in originale) ha una voce in grado di commuovere i sassi, gli scogli e le barriere coralline; e la sempre impeccabile Melissa McCarthy, che abbraccia con gran gusto la performance sopra le righe di Ursula, a sua volta modellata nel cartoon originale sulla celebre performer in drag Divine (Javier Bardem come Re Tritone è invece più sottotono, ma non possiamo biasimarlo: è pur sempre un signore di 54 anni costretto a far finta di recitare sott’acqua infilato in una gigantesca coda di pesce e in un corpetto madreperlaceo). Per il resto, nonostante qualche piccolo cambiamento qua e là e qualche buona sequenza spettacolare (quella del naufragio), non c’è davvero nulla di nuovo: d’altronde era proprio questo l’obiettivo, no? Al massimo, alla fine, vi ritroverete con un’improvvisa voglia di sushi…