Questa storia è fatta di tre aneddoti personali, ché di Sofia Coppola è stato ormai detto tutto, il contrario di tutto, e poi s’è ripartiti dal via. Tradotto: anziché ripetere discorsi triti e ritriti e passare per una persona noiosissima, parlerò (anche) di me, per parlare di lei.
Primo aneddoto: la prima (e finora unica) volta che ho incontrato Sofia Coppola. Vivevo a New York da nemmeno una settimana, era una domenica pomeriggio e stavo vagando per il reparto bambini di Bergdorf Goodman, vicino a Central Park. Cosa ci facessi io – orgogliosamente nullipara allora come oggi – nel reparto bambini di Bergdorf Goodman aprirebbe un’ulteriore parentesi (piuttosto divertente, lo ammetto) che mi porterebbe fuori strada, quindi tocca sacrificare le divagazioni. Ad ogni modo: a un certo punto, a circa un paio di metri da me, riconosco Sofia, accompagnata da una commessa zelante intenta a mostrarle una serie di maglioncini. Era il 2013, l’anno di The Bling Ring, era settembre, e lei era esattamente come l’avevo immaginata: la camicetta azzurra con le maniche arrotolate, la Chanel a tracolla, il mocassino basso, il long bob un po’ ondulato alle spalle. Parlava a bassa voce e si muoveva con una grazia innata, quasi come se non fosse parte di questo mondo, quasi come una delle sorelle Lisbon. La osservavo mentre si muoveva, sottile ed eterea, tra scarpine, cuffiette e vestitini, e lì ho realizzato che la leggerezza dei suoi film – che non è superficialità, sia chiaro – è la sua stessa leggerezza: i tocchi sono accenni, i passi sono scalpiccii, il vociare è un sussurro.
Sofia Coppola è il mio esatto opposto, è l’antitesi del mio essere rumorosa, nonché talvolta goffa e grossolana. È la camicia bianca, turchese e a righine con cui vorrei riempire il mio armadio, se solo avessi la pazienza di lavarla scrupolosamente, di inamidarla, di stirarla. Non ebbi il coraggio di avvicinarla – cosa avrei potuto dirle? Che sono una delle sue fan più sfegatate? Che imbarazzo! – ma rimasi in modalità stalker per una buona mezz’ora, almeno finché non si decise a pagare. Mi sembrava d’essere al cinema, spettatrice di una scena che avrebbe potuto benissimo comparire, che ne so, in Somewhere o in Lost in Translation: seguiamo la protagonista impegnata ad acquistare abiti per i suoi bambini; è indecisa, una commessa interviene ad aiutarla, lei pare avere la testa altrove. Non sta succedendo niente, eppure hai l’impressione che stia succedendo tutto.
Secondo aneddoto: indietro fino al dicembre del 2003. Stavo preparando la tesi, e in una delle nostre telefonate serali mia madre mi raccontò d’essere andata al cinema a vedere un film «abbastanza insulso». O, meglio, lei l’aveva trovato insulso; mio padre idem salvo il finale (i Jesus and Mary Chain sono uno dei suoi gruppi del cuore); l’amica insieme alla quale erano, invece, aveva gridato al miracolo. Ora, premetto che i miei gusti e quelli dei miei genitori in fatto di cinema sono abbastanza affini e che ho finanziato con regolarità le sale cinematografiche sin da bambina, ma in quel periodo vivevo in una bolla d’ansia e non prestai troppa attenzione né al loro giudizio negativo né al titolo stroncato. Lost in Translation, che vidi un po’ di tempo dopo e che non ricollegai immediatamente alla telefonata, resta a oggi il solo film che in età adulta mi costrinse a una doppietta: entrata insieme a un’amica allo spettacolo delle 20, rientrata in solitaria a quello delle 22:30.
Lo conosco a memoria, Lost in Translation («Be’, certo, spiccicano tre parole in croce», mi prese in giro mia madre quando glielo rinfacciai). La mia ossessione e il fatto che lo consideri un film perfetto si contrappongono all’insulsaggine e alla vuotezza di cui l’accusano i detrattori, e la tensione tra questi due opposti è il leitmotiv che ha segnato l’intera carriera di Sofia Coppola. Ho riportato l’esempio dei miei genitori non a caso, perché la questione non è riducibile a chi capisce qualcosa di cinema versus chi non ne capisce nulla: ho conosciuto gente con una cultura e una sensibilità pazzesche per le quali Marie Antoinette, Somewhere e Il giardino delle vergini suicide sono fuffa, un divertissement per una ricca (raccomandata) figlia di papà. «Nei suoi film non succede niente» è la critica che più spesso ho sentito muovere a Sofia Coppola: lentezza, mancanza di introspezione e di incisività dei personaggi, un’estetica studiatissima per sopperire alla poca sostanza di fondo.
Il bello è che si tratta di critiche in parte legittime: narrare la solitudine e il senso di smarrimento, d’altronde, non è un compito cinematograficamente facile, anzi. Sofia Coppola decide di farlo nell’unico modo che conosce e che le è familiare, ossia dal punto di vista di protagonisti – uso un termine che va parecchio di moda e che sto cominciando a detestare – “privilegiati”, che avrebbero tutte le carte in regola per essere felici e risolti, eppure sono persi. Non paga, ci mette il suo gusto estetico, quello che fa sentire noi dei poveracci privi di classe o stile, e sceglie di non urlare, di non disperarsi, di non dare spazio a emozioni laceranti: di essere, insomma, leggera, ma allo stesso tempo implacabile e precisa, come la pennellata di un impressionista. Non esce dalla sua comfort zone, è vero, non si prende dei rischi inutili, e nemmeno mira a insegnarci qualcosa. Ma non siamo forse stanchi della retorica secondo la quale solo chi osa ed è mosso da scopi didattici è meritevole di lodi?
Terzo e ultimo aneddoto, avanti veloce fino a settembre 2020. Conversazione su WhatsApp con un amico. «Il 23 ottobre esce il nuovo di Sofia Coppola, ma temo sia una cagata», scrivo io; «Eh, sa tanto anche a me», replica lui. Quanto ci sbagliavamo, e con quanto sollievo lo scrivo. On the Rocks, disponibile su Apple TV+, è forse la commedia di cui avevamo più bisogno in questo periodo buio, pesante e opprimente, tra semi-lockdown spacciati per coprifuochi e viceversa. Brillante, tenera, buffa, due protagonisti che funzionano perfettamente (Bill Murray e Rashida Jones), leggera (aridaje). Dentro c’è il rapporto di Sofia con l’ingombrante padre; le confidenze di un’amica alle prese con il potenziale tradimento del marito; la New York benestante ma mai sfacciata (i jeans un po’ sformati, il maglione di cotone a righe, le Vans ai piedi e la Chanel a tracolla); il dilemma interiore che irrompe improvviso in qualsiasi relazione («Quand’è che ho smesso di essere divertente?»).
Funziona bene, On the Rocks. E in alcuni momenti – vuoi New York, vuoi le battute riuscite, vuoi la coppia in crisi – ricorda vagamente il Woody Allen di Manhattan, di Radio Days, di Io e Annie. Non so da dove arrivassero i miei pregiudizi, o forse sì: mettevo le mani avanti per prepararmi a un’eventuale delusione (avevo commesso lo stesso errore con Un giorno di pioggia a New York, guarda caso), perché è difficile, se non impossibile, replicare i vecchi fasti, e chi si permette il lusso d’alzare l’asticella spesso si trova a combattere costantemente con questa frustrazione. On the Rocks invece sembra fregarsene: non è un capolavoro e non ambisce a esserlo; ha un impianto semplice e piuttosto lineare, che si regge più sulla scrittura che sull’estetica; rispetto a Somewhere, esplora più a fondo la tenerezza tra padre e figlia, introducendo nel personale vocabolario dei sentimenti di Sofia Coppola ciò che finora forse mancava, l’(auto)ironia.
Che il cinema abbia un potere taumaturgico credo sia un’indiscutibile verità, avercelo anche di ‘sti tempi oscuri è però arduo assai: se per un’ora e mezza riesci far a ridere, a commuovere, ad alleviare il senso di pesantezza e d’angoscia che c’affligge, chi più e chi meno, allora è inutile girarci intorno, per me hai fatto centro. Brava Sofia, se dovessi rivederti ora da Bergdorf Goodman, probabilmente ti direi soltanto questo: «Grazie».