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‘La terra promessa’ (starring un magnifico Mads Mikkelsen) è la risposta europea all’epica di frontiera hollywoodiana

L'epopea settecentesca dell'ex soldato deciso a coltivare la terra inospitale dello Jutland è un mélo western vecchia scuola, intenso e avvincente. Tra paesaggi mozzafiato, momenti pulp e un cattivissimo perfetto

Foto: Henrik Ohsten

Confessioni di una giornalista ai festival, aka quello che nessuno osa scrivere: credo che La terra promessa fosse il mio quarto film della giornata a Venezia 80 (dopo Ferrari, Dogman e gli Arriaga a Orizzonti; il quinto sarebbe stato una certezza, per fortuna: il corto futuro premio Oscar di Wes). Questo per dire che l’idea era ne-vedo-un-pezzo-e-magari-esco (sì, raga, succede, so che molti colleghi annuiranno), ma poi mi è entrato Mads Mikkelsen in un occhio ed è finita che non sono uscita se non 127 minuti dopo, con un gran bel pezzo di cinema classico addosso.

Perché è un gran bel film La terra promessa, ed è un gran bel film nel senso – appunto – più tradizionale del termine, un’epica old school di frontiera (quella europea questa volta, ci torniamo) con i codici del western e un protagonista magnifico. In pratica è una sorta di survival thriller del divo danese contro tutti: c’è l’uomo contro la natura (la terra arida e sterile), Davide contro Golia (un cattivissimo potente e sadico e un’aristocrazia indifferente e complice), il lavoro contro il privilegio, la morale contro l’assenza di morale. E poi paesaggi sconfinati, romanticismo, vendetta, redenzione perfino.

“La brughiera non può essere domata”, si legge all’inizio. Siamo nello Jutland danese a metà ‘700, il capitano Ludvig Kahlen (Mikkelsen), un eroe di guerra ambizioso ma poverissimo, non è tipo da arrendersi, al punto da prova a lavorare quel terreno infinitamente vasto e impossibile da coltivare (che finora forse soltanto le sorelle Brontë erano riuscite a rendere così affascinante) per dare vita a una colonia in nome del re. Vedendosi negare però i finanziamenti dalla corona, decide di investire tutti i propri averi in quella mission: impossible e chiedere in cambio, in caso di successo, un titolo nobiliare. Concesso, tanto non ce la farà mai.

In effetti quella terra è anche peggio di come se la immaginava, ma se soltanto un raccolto di patate sopravvivesse al gelo sarebbe fatta, più o meno. Ad aiutarlo ci sono un prete (Gustav Lindh), un paio di ex fittavoli in fuga, Johannes (Morten Hee Andersen) e Ann Barbara (Amanda Collin, vero cuore femminista del film) e una ragazzina di etnia tatara, Anmai Mus (Melina Hagberg, commovente), che a un certo punto – insieme alla sua gente girovaga e dalla pelle scura – diventa un ostacolo nel grande progetto di Kahlen a causa dei pregiudizi e delle superstizioni dei locali.

Melina Hagberg e Anmai Mus

Ma questo soldato turned contadino impegnato a bonificare l’inbonificabile è forse paradossalmente il personaggio più “duro” della lunga carriera dell’attore danese 58enne. E parliamo di uno che è diventato celebre al grande pubblico interpretando un serial killer cannibale e ha dato vita a banchieri del terrorismo internazionale che piangono lacrime di sangue, stregoni malvagi, skinhead, vichinghi. Insomma, villain che è sempre riuscito a rendere irresistibili. Ecco, Kahlen è l’(anti)eroe che – finalmente – si meritava: un protagonista che pare stoico è invece è più inesorabile di quella brughiera che è impegnato a sconfiggere, mosso da un desiderio di rivalsa (e poi vendetta) implacabile, ma anche umanissimo. Sta tutto su quel volto übercinematografico e nei tanti primi piani dove manco le parole ormai gli servono più.

Mads Mikkelsen in ‘La terra promessa’

Con Bastarden, questo il titolo originale, perché appunto Kahlen è figlio di una domestica, Nikolaj Arcel (già nominato all’Oscar nel 2013 per A Royal Affair starring lo stesso Mads) costruisce un mèlo western potentissimo e avvincente – la conquista della brughiera – girando tra scenari naturali, mozzafiato, respingenti e avvolgenti insieme, che paiono usciti da un dipinto di Vermeer o di Rembrandt. È un film che guarda alla grandeur avventuriera di David Lean, all’”epica e etica di John Ford” (cit. Alberto Crespi, Il mondo secondo John Ford) e alle esplosioni di violenza di Sam Peckinpah. Sì, La terra promessa è anche brutalissimo: il lotto di terreno che è stato concesso a Kahlen infatti confina con i terreni di Frederik de Schinkel, giudice della contea e signore locale, che supervisiona numerosi mezzadri dentro e intorno alla sua tenuta, inclusa quella coppia in fuga ora impiegata da Kahlen. Ed è pure uno stupratore e un assassino, intenzionato da tempo a rivendicare la brughiera come sua con qualsiasi mezzo. Un cattivo scritto per farsi odiare dalla prima inquadratura e interpretato con la giusta malizia da Simon Bennebjerg, fautore o addirittura esecutore di alcune delle scene più pulp, oltre che perfetto contraltare del bastardo zero tituli di Mikkelsen nel suo essere definito da privilegi familiari secolari.

Simon Bennebjerg nie panni di de Schinkel

Certo, dall’ambientazione alla cultura rappresentata, fino alla guerra feudale per il territorio non reclamato dello Jutland La terra promessa è ovviamente “molto danese” (semicit.), ma la potenza narrativa, le interpretazioni e il respiro delle grande epopee hollywoodiane lo rendono universalissimo. Come lo è il miglior cinema. E io ve lo dico: se non vi scappa una lacrimuccia davanti agli occhioni di Anmai Mus, siete stronzi.

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