I film sull’Olocausto sono ormai un genere a parte. Riconoscerlo fa venire un po’ di nausea. Stiamo parlando di arte che cerca di ricreare un’atrocità di dimensioni e portata così devastanti; di immaginare l’inimmaginabile. Basta pronunciare la frase “film sull’Olocausto” per far venire subito in mente una serie di immagini e scenari, convenzioni e cliché. Alcuni di questi film sono stati straordinari. Molti sono apparsi al limite dello sfruttamento del tema. Alcuni sono stati apertamente offensivi. Il filosofo tedesco Theodor Adorno è spesso citato erroneamente per aver detto: “Non c’è poesia dopo Auschwitz”; in realtà la sua affermazione era che “scrivere poesia dopo Auschwitz è una barbarie”. Se da un lato questi film possono aiutarci a non dimenticare mai quello che è successo, dall’altro rischiano di renderci insensibili a questi orrori. La barbarie è ridotta a un’occasione da Oscar.
La zona d’interesse di Jonathan Glazer – il suo primo film in un decennio, dopo Under the Skin del 2013 – ne è consapevole. Per questo motivo, questo libero adattamento del romanzo di Martin Amis del 2014 prende una strada diversa. Consapevole di ciò che avete già visto in passato sullo schermo, fa un passo indietro rispetto alle porte dell’inferno e si concentra invece su chi vive intorno a quell’abisso. Le nostre “guide turistiche” sono Rudolf e Hedda Höss (interpretati da Christian Friedel e Sandra Hüller, entrambi meritevoli di tutte le lodi che hanno ricevuto). Sono tedeschi che hanno ascoltato l’invito ad andare a Est e a stabilirsi lì: si sono trasferiti in Polonia per il lavoro di Rudolf. Nei fine settimana, insieme alla loro nidiata di bambini, fanno picnic e vanno a nuotare in riva a un lago. Organizzano feste nella loro lussuosa casa, invitando amici, vicini e colleghi a rilassarsi al sole. Una serra è situata accanto a un giardino lussureggiante, pieno di piante in fiore. È così pittoresco, questo ritratto della vita domestica, che si potrebbe non notare subito gli spari, i cani che abbaiano o le grida di terrore.
Se riconoscete i nomi, allora sapete chi sono queste persone e cosa sta succedendo. Se non li riconoscete, solo quando vedrete la torre di guardia e una ciminiera che sprigiona fumo proprio fuori dal giardino di quella famiglia, capirete dove vi trovate. Rudolf era il comandante di Auschwitz. Lui e i suoi famigliari vivevano sul confino del campo che lui stesso aveva contribuito a trasformare in un “modello di efficienza” (il titolo prende il nome da come le S.S. chiamavano l’area circostante ad Auschwitz dove risiedevano gli ufficiali e i loro parenti). Si vede Höss all’interno delle mura del campo solo una volta, in un’unica inquadratura che Glazer mantiene come uno stretto primo piano sul suo volto. Ma si è costretti ad ascoltare tutto ciò che accade intorno a lui, non in lontananza ma a distanza ravvicinata. Quello che si sente è la morte. Quello che sente lui è un altro giorno di lavoro.
Poi Höss torna a casa, legge le favole della buonanotte ai figli, si scambia qualche battuta con la moglie, si chiede se il raggiungimento dei numeri trimestrali possa portare a una promozione. Nel frattempo, una colonna sonora di lamenti, armi e treni in arrivo suona come se fosse in loop. Rudolf, Hedda e i loro figli non registrano più queste cose. Ma voi sì. Ed è proprio in questo vuoto che Glazer ha coraggiosamente collocato questa cronaca della banalità che circonda la banalità del male.
Regista passato dalla realizzazione di video musicali rivoluzionari a decostruzioni di genere – Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia (2000), Birth – Io sono Sean (2004) e Under the Skin (2013) si possono rispettivamente definire un gangster movie, un thriller soprannaturale e una parabola sull’invasione aliena, anche se questo non rende giustizia a nessuna di queste opere sui generis – Glazer ha perfezionato una sorta di formalismo glaciale che attrae e respinge allo stesso tempo gli spettatori in cerca di appigli narrativi tradizionali. Quanto più strano è il suo approccio, tanto più si tende a rimanere storditi e meravigliati dal modo in cui il suo stile altissimo spinge la narrazione in luoghi sorprendenti (non siamo ancora riusciti a dimenticare la visione del predatore extraterrestre di Scarlett Johansson che attira ragazzi scozzesi in tane nere come la pece in Under the Skin).
È uno dei pochi registi a meritarsi l’appellativo di “visionario”, e sarebbe incredibilmente facile farsi prendere dai suoni e dalle visioni che mette in mostra qui: l’uso del colore alla Douglas Sirk, le inquadrature “mobili”, il sound design descritto come “genocidio ambientale”, una colonna sonora di Mica Levi che pulsa e geme. All’interno della casa degli Höss sono state installate più macchine da presa, per riprendere Friedel, Hüller e il resto del cast mentre si muovono all’interno e all’esterno della casa e svolgono le loro attività quotidiane. In alcuni momenti sembra di assistere a un reality show del 1944.
Ma tutti questi elementi non sono utilizzati per abbagliare o stupire, bensì sono stati impiegati con attenzione e meticolosità per registrare la puntuale cronaca degli eventi e per immergere il pubblico in uno stato d’animo. Glazer non vuole che siate impressionati da La zona d’interesse: vuole che capiate come accadono cose del genere e chi le fa accadere. Tutto quello che è successo è stato organizzato da padri di famiglia, da mogli che hanno problemi con le dinamiche di potere sbilanciate nei loro rapporti coniugali, da persone normali che hanno messo la bile antisemita nelle loro educate chiacchiere all’ora del tè. È stato fatto con il costante ronzio dell’inferno in sottofondo, assorbito nel tessuto quotidiano di coloro che si occupano solo di eseguire gli ordini.
Glazer piazza qua e là alcune battute casuali, da Höss che si rende conto di trovarsi in un fiume inquinato dalle ceneri dei morti ai suoi ragazzi che giocano con denti d’oro ritrovati, che sono ancora più nauseanti per la loro presentazione senza censure. Sia Friedel che Hüller non interpretano questa coppia come se fosse composta da due mostri, ma come se fossero persone comuni, il che rende la loro crudeltà ancora più agghiacciante. È così che funziona la normalizzazione del fascismo e dell’omicidio di massa, ci dice il film.
Ma vuole anche avvertirci che questo non è stato il risultato dell’azione di alieni, o del soprannaturale, o di qualche primitivo uomo di Neanderthal. È stata la decisione di esseri umani determinati a uccidere altri esseri umani. E mentre La zona d’interesse non ha alcun interesse a farvi provare empatia per gli Höss, il film vi chiede di riconoscere il terreno comune del “noi”, piuttosto che del “loro”. Chiede di guardare alle somiglianze piuttosto che alle differenze, e il fatto che lo faccia senza mancare di rispetto all’insondabile tragedia avvenuta è ciò che lo rende un film completamente diverso e profondo. Alcuni hanno detto che il film di Glazer è una reinvenzione dei film sull’Olocausto, ma ciò significa dare poco peso a questo capolavoro. È un’opera che costringe a riesaminare il modo in cui abbiamo trattato questo capitolo della Storia, e che restituisce un giusto senso di orrore inafferrabile.
Senza svelare lo shock del finale, c’è un flashforward che ci presenta l’eredità di ciò a cui abbiamo assistito, prima di spegnersi su Höss che vomita e chiude così la storia del grande fallimento morale del XX secolo. A differenza della maggior parte dei drammi di questo tipo, La zona d’interesse non vuole farci pensare al passato. Chiede che prestiate molta attenzione al presente.